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Mimmo Cuticchio e la tradizione dei pupi

Lo scorso 8 novembre si è tenuta, nella sede Ex Poste dell’Università di Roma Sapienza, la lectio magistralis di Mimmo Cuticchio. Il più noto oprante e cuntastorie del nostro tempo apre questa conferenza-spettacolo inscenando, senza l’uso dei pupi, la scena del massacro di Roncisvalle. Attraverso la modulazione della voce rende vivida la tensione del re Carlo Magno al suono dell’olifante, causato dagli sforzi di Orlando per informare il suo re della battaglia e del suo malaugurato esito.
L’Opera dei pupi si basa sui romanzi e sui poemi del ciclo carolingio. I cantastorie siciliani, fin dal 1700, rielaborarono queste vicende che vennero finalmente raccolte nel 1858 in dispense. Come dichiara il maestro, anticipando il contenuto del laboratorio che si terrà dal 14 al 17 novembre presso l’ATCL, “la rappresentazione teatrale è un’opera pratica, e così saranno i nostri incontri a partire da oggi”.
E’ per questo che durante la conferenza spiega come si debba usare la voce, definita da lui stesso “cucina dei sentimenti, luogo dove si distilla l’emozione dello spettacolo”. Inoltre evidenzia come dietro alle quinte spetti agli aiutanti, chiamati in gergo mamianti o combattenti. seguire il maestro puparo che, un po’ come un capo orchestra, dà il ritmo della narrazione. Il ritmo, infatti, è tutto. Tant’è che i combattimenti, assai frequenti, diventano delle vere e proprie scene di danza.
Il maestro Cuticchio costruisce in prima persona le sue marionette e vuole mostrarcele. D’un tratto compaiono dei pupi. Alcuni sono detti pupi in paggio, disarmati e perciò fabbricati con le mani. Altri sono i pupi armati e vengono prodotti con il pugno, per potervici mettere la spada o all’occorrenza la scimitarra.
Dopo aver fatto vedere come si manovrano i fili di questi piccoli attori, ha inizio la parte scenica dell’appuntamento. Utilizzando la cattedra come un palco l’artista inscena “L’Orlando Furioso”. Orlando, in preda a un delirio, vede le scritte sugli alberi che coronano l’amore di Angelica e Medoro ma continua a credere che la donna amata usi un altro nome per indicare lui stesso.
Dopo una breve pausa l’erede e l’innovatore della tradizione siciliana dà spazio a delle riflessioni squisitamente biografiche.
Sollecitato da varie domande il maestro spiega infatti d’esser nato in una famiglia di sette fratelli e trecento pupi. “Quando guardo un pupo non vedo una marionetta, ma un personaggio” dichiara. E ancora “non ho mai avuto con i pupi un rapporto di amore ed odio, come invece avviene con i fratelli. I pupi si amano solamente, non puoi litigarci.”
Emerge il fatto che lui pensa per storie e non per tecniche, che una matrice di pensiero situazionale lo porta a scansare il dialetto siciliano per quanto riguarda i personaggi nobili. “Il potere del nostro, del mio teatro è la tradizione popolare. Nello stile palermitano si lascia spazio all’improvvisazione, ancora oggi si usa solamente un canovaccio e non un copione vero e proprio. Questa è la nostra forza: tradizione, studio e pratica.” E a chi gli chiede cosa accadrà al teatro dei pupi con l’avvento delle nuove tecnologie risponde divertito che è la stessa domanda che gli è stata rivolta quarant’anni prima.
“Quando mio padre mi disse che la tv sarebbe stata un pericolo, io risposi che dovevamo entrare in questo nuovo mondo e non combatterlo. In ogni caso bisogna sempre restare fedeli alla tradizione, innovarsi senza stravolgerla. Perché se si sa usare, la tradizione ti mette le ali.”
Elisabetta Orfanelli