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“Stranieri residenti”: Donatella Di Cesare presenta il suo nuovo libro

      Intervista a Donatella Di Cesare

Giovedì 16 novembre, nella cornice di Villa Mirafiori, si è tenuta, in occasione della Giornata Mondiale della Filosofia, la presentazione del libro Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione di Donatella Di Cesare, filosofa italiana autrice di numerose pubblicazioni e docente alla Sapienza.

Un progetto dalla genesi lunga circa dieci anni, nato in particolare dal confronto col dibattito analitico tedesco su immigrazione e accoglienza. Da questo spunto parte il lavoro dell’autrice, che guardando agli effetti della globalizzazione, vuole creare una vera e propria filosofia della migrazione, muovendosi in una ricca analisi che va dalla condizione umana dell’esilio al tema della cittadinanza aperta, dal superamento dello stato-nazione alla questione etica e politica della giustizia, passando attraverso la figura degli stranieri residenti. La Di Cesare descrive infatti tre tipi di cittadinanze, ancora attuali, attraverso tre diverse città della storia: Atene, Roma e Gerusalemme. Dall’autoctonia ateniese, che spiega molti miti politici di oggi, si distingue la cittadinanza aperta di Roma. L’estraneità regna invece sovrana nella Città biblica, dove cardine della comunità è il gher, letteralmente «colui che abita»: è proprio lui lo straniero residente, figura che supera la logica degli steccati che assegnano il diritto di abitare al solo autoctono.

Un libro ricco di spunti di stringente attualità, tanto che la presentazione si è configurata come un lungo dibattito tra i maggiori studiosi di filosofia politica, morale e teoretica della Sapienza, da Mariano Croce a Stefano Petrucciani, da Piergiorgio Donatelli a Federico Lijoi, da Marcello Mustè ad Elettra Stimili, che dello stesso volume hanno offerto letture differenti.

Quel che ha trovato tutti d’accordo è che gli stati-nazione si stanno sgretolando. Come sostiene l’autrice, il migrante “porta con sé una carica sovversiva, migrare non è un dato biologico, bensì un atto esistenziale e politico”: egli si scontra con lo Stato perché ne mette in luce contraddizioni e limiti e rivela la lunga crisi che lo Stato nazionale europeo vive sin dal periodo della prima guerra mondiale, quando sono crollate le certezze identitarie. Il migrante rende evidente in particolare il cortocircuito che esiste tra diritti umani e Stato-Nazione: se solo la legge di uno Stato è in grado di garantire i diritti, se si è apolidi questi diritti non sono riconosciuti. Ma nel terzo millennio la giustizia non è più pensabile in termini di confini nazionali. In una fase di diaspora mondiale come quella del mondo globalizzato moderno, in cui, come dice l’autrice “viviamo un esilio planetario”, è necessaria quindi la ricerca di un nuovo senso di comunità che non si identifichi come nazione, in cui il diritto sia sganciato dall’idea di territorio. Il migrante deve essere il cardine di una nuova comunità politica, in cui non esiste più la contrapposizione tra cittadino e straniero residente, in una prospettiva che pensa oltre lo Stato. Abitare e migrare non sono due concetti contrapposti, perché l’abitare deve essere concepito nel segno della separazione dalla terra: il luogo in cui si abita non è una proprietà, non ci appartiene e non possiamo impedire agli altri di starci. Coabitare, senza poter scegliere con chi, è la sfida del futuro, a cui tutti siamo chiamati. Perché tutti siamo stranieri residenti.

Ludovica Marafini

(intervista di Dario Germani)