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“Ragazzi di vita” al Teatro di Roma

L’architettura pasoliniana di “Ragazzi di vita” – ripresa e sviluppata scenicamente dall’adattamento drammaturgico di Emanuele Trevi e dalla regia di Massimo Popolizio – è tutta nell’affiancare ai personaggi una presenza che osserva e racconta. In quella capitale disseminata di piccoli quartieri, Pasolini attinge dalle borgate romane restituendo al lettore la semiologia di un universo umano: un narratore interno che racconta la povertà del Secondo Dopoguerra, la miseria vissuta allora dai ragazzi come immanenza della vita stessa da portare nello stomaco, sulle labbra, come uno stornello o una canzone di Claudio Villa.

I “ragazzi” di Pasolini sono personaggi emarginati dalla città normale, degna e patinata. Agguantano la vita a piene mani e a pieni polmoni da un universo di fibrillazioni e vitalità anarchiche che è totalmente altro rispetto ai contesti borghesi, ai micro-cosmi protetti e istituzionali di lavoro o scuola.

La scelta registica della terza persona che accompagna i discorsi diretti assieme alle descrizioni, e l’allestimento scenico che asseconda l‘energia dei “ragazzi”, esaltano la vocazione del romanzo; la reinvenzione linguistica intercetta la contaminazione tra il romanesco dei parlanti di allora, quelli di oggi e quel codice con cui Pasolini è intervenuto nel tessuto romano. Lino Guanciale da narratore-poeta riesce a vestire i panni di Pasolini e a sposare intenzioni (registiche e attoriali). La recitazione di alcuni interpreti parte però dall’eccesso: la dinamica dei volumi cede a volte al “gridato” soprattutto nelle prime scene, salvo ritrovare poi una propria armonia. L’autonomia dei diversi quadri, la struttura stessa del testo letterario e forse la mancanza di una vera partecipazione emotiva vanno, alla lunga, a scapito dell’attenzione dello spettatore, che il teatro non gode del privilegio di un libro di poterne chiudere le pagine e di riaprirle poi.

Dario Germani