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Il ricordo del 70esimo anniversario della Scomunica di Tito

Catalizzare l’attenzione su evento che ha segnato sia la popolazione di un’intera regione che la prima parte della Guerra Fredda. Questo è stato l’obiettivo del seminario dal titolo “Il conflitto sovietico-jugoslavo. Analisi delle ripercussioni a 70 anni dalla “scomunica di Tito”, tenutosi lunedì 25 giugno, presso l’Aula Multimediale del Palazzo del Rettorato.

L’evento è stato organizzato dal Dottorando in Storia dell’Europa Arrigo Bonifacio, con il patrocinio del Dipartimento di Storia, culture e religioni, della Fondazione Roma Sapienza e del CEMAS (Centro di ricerca Cooperazione con l’Eurasia, il Mediterraneo e l’Africa Sub-Sahariana), in occasione del 70° anniversario della nota del Cominform che diede avvio al conflitto tra Mosca e Belgrado.

La sessione di studio ha avuto inizio con i saluti istituzionali di Antonello Folco Biagini e Alessandro Saggioro. Biagini, Presidente della Fondazione Roma Sapienza, ha portato i saluti del Rettore e ha sottolineato come la “questione balcanica” è stata da sempre molto importante per la Sapienza e per il Dottorato. La riflessione sui contrasti di una “regione troppo ristretta, con tante diversità difficili da metabolizzare l’uno con l’altro”, è ancora attuale, perché tutt’oggi ci sono sentimenti di tipo nazionalistico e molti errori da parte di istituzioni non riconosciuti, come la scelta alla pace di Versailles di inglobare troppi popoli sotto un’unica bandiera, quella Jugoslava appunto.

Alessandro Saggioro, coordinatore del Dottorato in Storia dell’Europa e coordinatore scientifico dell’evento, ha focalizzato l’attenzione sullo spirito dell’evento, ossia la forte passione per la materia da parte del dottorando Bonifacio. Su questo esempio il Comitato Scientifico seguirà con particolare attenzione e sosterrà gli studi sulla materia e idee innovative su queste tematiche.

Terminati i saluti, spazio alla prima parte del convegno, dedicata allo Stato e presieduta dal direttore del CEMAS Andrea Carteny.

Jože Pirjevec, storico italo-sloveno ed ex professore alle Università di Padova e Trieste, ha analizzato nel dettaglio i retroscena sui dissidi tra Stalin e Tito, fulcro del conflitto. Le principali divergenze furono due. La prima riguardava l’interpretazione della seconda Guerra mondiale, perché per Stalin l’aggressione della Germania nazista all’URSS era una guerra patriottica – “tra russi e tedeschi” – e non ideologica, mentre per Tito vi erano alla base ragioni ideologiche. Il secondo motivo di dissidio riguardava la politica estera: Tito voleva esportare gli ideali della rivoluzione comunista (come tra l’altro testimonia l’appoggio alla guerra civile greca del 1946), mentre Stalin a riguardo era restio, perché non voleva far passare agli occhi dell’Occidente l’immagine di un rivoluzionario. Il leader sovietico alla fine del 1947 cominciò a criticare le scelte di Tito e cercò di forzare la firma di un trattato che dava potere di veto ai russi per qualsiasi azione jugoslava di politica estera. Il rifiuto di Tito acuì la tensione fino alla risoluzione di Bucarest: il 28 giugno 1948 – esattamente 70 anni fa – in una nota del Cominform, venne sancito il distacco della Jugoslavia dal blocco comunista. In questo stato di solitudine, gli Stati Uniti ne approfittarono per aiutare di nascosto gli jugoslavi con armi, petrolio e cibo, stringendo accordi a livello economico e diplomatico e spostando la “Cortina di ferro” quasi 200 km più a ovest.

Arrigo Bonifacio, dottorando in Storia d’Europa e promotore della giornata di studio, si è focalizzato sulla “scomunica di Tito” e sulle sue ripercussioni sulla questione di Trieste. Questa zona, dopo la sconfitta italiana nella seconda Guerra mondiale, venne spartita in due macro aree: la prima comprendente le attuali province di Gorizia e Trieste e la parte settentrionale dell’Istria (detta zona A), invece la seconda comprendeva la restante parte della penisola istriana, la Dalmazia e Fiume (zona B). Queste zone divennero punto di attrito tra Italia e Jugoslavia, a causa di interessi intrecciati e sovrapposti da parte di entrambi. In questo scenario la “scomunica di Tito” influì sulla spartizione dei territori dibattuti: Stalin era convinto che le azioni del maresciallo mettessero in pericolo l’intero blocco orientale.

Dopo un breve break, la seconda parte, incentrata sul partito e con lo stesso Pirjevec in veste di moderatore, ha visto quattro importanti interventi da parte di studiosi, provenienti da zone interessante nel conflitto diplomatico a seguito della seconda Guerra Mondiale.

Patrick Karlsen, dell’Università degli Studi di Trieste, ha analizzato come la rottura del ’48 abbia avuto un importante significato strategico all’interno del cosiddetto “comunismo adriatico”: lo scenario dove le due linee divergenti (quella sovietica che voleva la costruzione del socialismo gradualmente e all’interno delle istituzioni, e quella jugoslava che voleva una politica d’urto verso le forze borghesi per conquistare direttamente il potere) si sono incontrate, scontrate e sovrapposte.

Il professor Saša Mišić, proveniente dall’Univerzitet u Beogradu, collegandosi agli attriti italo-jugoslavi, ha approfondito le tempestose relazioni che c’erano in quel periodo tra il Comunista Italiano e il corrispettivo Jugoslavo.

Bogdan Živković, dell’Università La Sapienza, ha gettato uno sguardo sul futuro del conflitto con la ricostruzione storica del riavvicinamento tra la Jugoslavia e il PCI, avvenuto tra 1956 e 1964. Diverse furono le concause: dalla morte di Stalin e la diversità di atteggiamento da parte del suo successore, Nikita Krusciov, fino al legame molto stretto tra Tito e Palmiro Togliatti, anche ideologico visto nei Congressi comunisti dal ’57 al ’60, il PCI era l’unico partito che non voleva isolare la Jugoslavia.

Infine Karlo Ruzicic-Kessler, della Libera Università di Bolzano ha osservato il conflitto Tito-Stalin dal particolare punto di vista del Partito Comunista Austriaco, che ha avuto la massima espansione dal 1945 al 1959, stando anche al governo nel triennio dell’immediato dopoguerra. Nello specifico, il PCA aveva una grande stima per come Tito e i partigiani jugoslavi avevano liberato il paese dall’occupazione nazifascista. Per loro la Jugoslavia era “il Paese più libero, più democratico e progressivo al di fuori dell’Unione Sovietica”.

Al termine del convegno, il professor Jože Pirjevec ai nostri microfoni si è soffermato sull’attualità che rivestono ancora le ragioni di quel conflitto, sulle personalità carismatiche e inconciliabili dei due leader, e del modo in cui gli Stati Uniti hanno approfittato della prima grande crepa del blocco orientale.

      Intervista a Joze Pirjevec

Enrico Salvi