“La teoria averroistica della religione come farmaco o veleno salutare tra Quattro e Cinquecento” è stata al centro del convegno che ha avuto luogo il 18 gennaio 2022 nell’aula II di Villa Mirafiori. Il Professor Giovanni Licata, docente di storia della filosofia araba ed ebraica presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università La Sapienza, ha ricostruito una teoria generale della religione come pharmakon, a partire da tre testi cruciali di Averroè.
La parola greca Φάρμακον, pharmakon, ha un significato che spazia dal concetto di farmaco, inteso come cura, a quello di veleno. Le caratteristiche di “benefico” e di “nocivo” erano legate, in passato, alla quantità della sostanza e al temperamentum di chi la assumeva piuttosto che alle qualità intrinseche della stessa. A partire da questa rappresentazione Averroè ha sviluppato la teoria della religione come pharmakon. Questa metafora non è nata con il pensiero del filosofo; la sua più lontana origine è, infatti, platonica e compare in alcuni testi chiave de La Repubblica e delle Leggi, dove Platone prescrive al legislatore, al governante e al re filosofo l’uso di menzogne a fin di bene che agiscono secondo lo stesso principio che lega il medico al malato. Attraverso l’analisi di alcuni passaggi di tre testi: Expositio in librum Politicorum Platonis, L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi – testi che sono penetrati in Occidente solamente tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500 – e il Prologus in tertium Pshysicorum – che si è diffuso nella metà del ‘200 -, il professor Licata ha ricostruito il percorso che questa parola ha assunto nel corso del tempo, in connessione alla religione e alle teorie religiose. Tale collegamento è stato sviluppato solo in epoca rinascimentale poiché solo in questo frangente i latini hanno avuto accesso alle traduzioni dall’ebraico di Averroè.
La traduzione del Prologo è problematica in quanto, nel corso del tempo, questo testo si è radicalizzato. L’edizione Giuntina di metà Cinquecento è quella più estrema poiché vi si afferma che la teologia impedisce lo studio delle scienze. Tramite una struttura a chiasmo appare, in questa versione, la tesi secondo la quale chi in principio studia la filosofia non può, in seguito, apprendere le leges, che Licata ha interpretato come “teologia o ciò che è relativo alle religioni” e a chi, per prima cosa, studia le leges, in seguito, le altre scienze risulteranno incomprensibili.
Secondo un passaggio dell’Expositio in librum Politicorum Platonis, dalla traduzione rinascimentale di Elia del Medigo, del 1485, il legislatore profeta è un dispensatore di sermonibus falsis. Tali sermoni falsi sono quelli di cui si serve il legislatore religioso per fondare una religione e sono necessari per la felicità del volgo, agendo come il pharmakon che il medico prescrive al malato. Da un lato, quindi, sono salutari per il popolo – in quanto veleno che cura – ma, dall’altro, fungono da potente veleno per il filosofo. Nella traduzione di Jacopo Mantino è stata mantenuta l’ambiguità della parola pharmacum: il medico è colui che prescrive il pharmacum che, Del Medigo, ha tradotto con medicinam, con accezione positiva. Analizzando il testo in ebraico, che costituisce l’unica testimonianza più vicina al testo di Averroè, in quanto la versione araba è andata perduta, compare la parola samma che, in ebraico medievale, grazie alla traduzione di Maimonide, ha assunto il significato di veleno. Il medico è, quindi, colui che somministra veleno ai cittadini; per questa ragione, sebbene la traduzione di Del Medigo fornisca una visione meno radicale, l’interpretazione corretta è quella che associa il termine a una medicina nociva, che può essere relativamente benefica solo per coloro che sono malati.
Nel terzo testo, L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, si assiste ad un rovesciamento dell’idea: si parla della filosofia come veleno per le masse e nutrimento per i filosofi.
Pietro Pomponazzi, filosofo e umanista, collegando i commenti di Averroè alla Fisica di Aristotele e a La Repubblica di Platone, ha difeso la tesi della differenza tra il filosofo e il legislatore poiché il fine ultimo del primo è il perseguimento della verità, mentre il fine ultimo del secondo la bontà. Nella sua analisi il veleno appare, quindi, come salutare perché fondativo della comunità politica. Il legislatore non diffonde favole per ingannare gli uomini, ma per poterli controllare in modo più efficace; per questa ragione le leges non possono definirsi né vere né false, tuttavia, coloro che sono assuefatti a tali leggi non hanno la capacità di ragionare correttamente.
Ludovico Boccadiferro, successore di Pomponazzi nella cattedra di filosofia a Bologna, ha giudicato impropria la metafora di Averroè sul veleno, fornendo una visione che ha annullato ogni riferimento al pharmakon e alla sfera politica, facendo assumere al termine venenum il significato di cibo dannoso. Nell’opera di Michel de Montaigne il tema della consuetudo, dell’assuefazione, è declinato in chiave scettico-relativistica.
Nel corso del tempo, dunque, la metafora della religione come pharmakon ha subito numerose metamorfosi: da droga che porta assuefazione e intorpidimento dell’intelletto a medicina curativa con effetti collaterali necessari; da malattia contagiosa a cibo scaduto e indigesto. «Abbiamo visto le radici averroistiche di una metafora potente che, anche per tramite del dictum marxiano, “la religione è l’oppio dei popoli”, è divenuto, nonostante le sue ambiguità e le sue metamorfosi, un’espressione proverbiale patrimonio più o meno inconsapevole di ogni miscredente e ogni ateo, ma oggi necessariamente, a differenza del passato, non necessariamente sapiente» – ha concluso il professor Licata.