Roma, 9 maggio 2022 – Parole e politiche di guerra, questo il titolo della giornata di studi organizzata dalla Facoltà di Lettere e filosofia e dalla Facoltà di Scienze politiche, sociologia, comunicazione dell’Università “Sapienza” di Roma. Il convegno, svoltosi presso il Centro Congressi d’Ateneo, è stato aperto dai saluti istituzionali della Rettrice Antonella Polimeni, della Presidente della Facoltà di Lettere e filosofia Arianna Punzi e del Preside della Facoltà di Scienze politiche, sociologia, comunicazione Tito Marci. Le ultime due sessioni della giornata, intitolate Narrative e linguaggi di guerra e Orizzonti di guerra, sono state introdotte rispettivamente da Arianna Punzi e Tito Marci. Al dibattito hanno preso parte numerosi professori della Sapienza: Nunzio Allocca, docente di Storia delle scienze e delle tecniche e History of brain and mind sciences, Irene Baldriga, docente di Museologia e critica, Nadia Cannata, docente di linguistica italiana, Giorgio Nisini, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, Luca Scuccimarra, docente di Storia delle dottrine politiche, Maria Serena Sapegno, docente di Letteratura italiana e Studi di genere, Alessia Melcangi, docente di Storia contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente e Globalizzazione e Relazioni Internazionali, Raffaele Cadin, docente di Diritto Internazionale e Diritto Internazionale dell’Economia e dello Sviluppo, Paolo Sellari, docente di geografia politica ed Economica e Matteo Marconi, dottore di ricerca in Geopolitica e Culture del Mediterraneo e in Scienze dei Sistemi Culturali.
La dura realtà dei Besprizornye
I Besprizornye sono i bambini randagi e malfamati che, tra il 1917 e il 1935, popolarono la Russia sovietica e l’Ucraina. Carestie e pressioni staliniste avevano riversato nelle città questi giovani che furono presto considerati una piaga sociale da debellare. Falliti i tentativi di recupero psicopedagogico ed educativo si passò alla Risoluzione del Comitato esecutivo centrale dell’Unione Sovietica, maturata il 7 aprile 1935, secondo la quale i bambini dai 12 anni di età, riconosciuti colpevoli di furto, violenze e omicidio erano passibili di giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure punitive, come la fucilazione. Molti finirono nei lager o subirono torture fisiche e psicologiche; molti vennero arruolati durante la Seconda guerra mondiale. Gli studi di psicologia culturale, condotta all’inizio degli anni ’30 nella Russia sovietica, mostrarono come in questi ragazzi, anaffettivi e senza empatia, la lotta per la sopravvivenza anticipasse le competenze cognitive. Oggi si assiste, in molti casi, alla stessa assenza di empatia, in particolare tra i militari russi che continuano a perpetrare violenze inaudite a danno dei prigionieri. Non manca chi azzarda un parallelo tra l’infanzia dei bambini abbandonati nella Russia sovietica e quella di Vladimir Putin nella Leningrado postbellica. «Forse, in futuro, nei corsi e ricorsi storici si parlerà di Putin, innanzitutto, come un besprizornye, un selvaggio di strada» – ha affermato il professor Allocca.
“Anche le statue muoiono”. Il museo come strumento politico
Il rapporto tra museo e guerra è stretto e controverso. Il museo è oggetto di conquista, ma anche strumento attivo di propaganda; può anche assumere il ruolo di superstite di guerra, narrando le ferite subite, offrendo conforto, consolazione e l’idea della preservazione dell’identità culturale del popolo attraverso il patrimonio materiale, bersaglio di distruzioni, ma anche simbolo dell’identità di una nazione. Il museo può, infine, assurgere al ruolo di interprete del conflitto, contribuendo alla costruzione della memoria collettiva. Con la Seconda guerra mondiale si è aperto, da un lato, il bisogno di creare spazi di rievocazione storica, luoghi del conforto che dessero conto delle ferite subite, delle perdite, dei sacrifici, delle rinunce dei combattenti e dei civili, dall’altro si è compresa la necessità di rendere omaggio alle vittime in una prospettiva etica e di crescita collettiva, capace di sfuggire al voyeurismo macabro e coinvolgere emotivamente il visitatore, conducendolo verso un percorso di commozione e impegno civico, possibile anche grazie alla collaborazione tra musei memoriali, architettura e arte contemporanea. Luogo politico, dunque, nel quale poter praticare e rivendicare l’esercizio del pensiero critico e della cittadinanza, favorendo la conciliazione e l’incontro.
Limiti e possibilità della lingua
La lingua è fonte di pace e la sua assenza è motivo di guerra; se dinnanzi alla guerra la ragione tace, così come la lingua, è necessario riempire questo silenzio. I poeti hanno tentato di dare una voce al male e all’enigma che spinge a compierlo. Primo Levi si è interrogato sul problema dell’impossibilità, ma anche sulla necessità del perdono e sui limiti che la lingua, la parola degli uomini liberi, incontra nel descrivere una realtà che gli uomini liberi non possono conoscere, come quella del dolore. Attraverso la lingua è anche possibile perpetrare una prevaricazione che è insita nel nostro stesso modo di studiare e rappresentare le lingue, soprattutto se ci si affida esclusivamente all’idea diacronica di essa.
La memoria come contronarrazione
Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale si sviluppò l’idea della responsabilità della cultura. La narrazione che venne fatta in Italia della Grande guerra era pervasa dal propagandismo ufficiale e interventista; i primi che scardinarono quella narrazione furono gli scrittori, attraverso le memorie. La Memoria del ‘900 delinea un approccio della letteratura e degli scrittori nella narrazione della guerra da cui emergono dei paradigmi: responsabilità per ciò che è accaduto, possibilità di lavorare per costruire quella che Elio Vittorini chiamava “nuova cultura” e contronarrazione attraverso la Memoria; il quarto paradigma è legato all’idea di saper guardare la realtà senza schematismi. L’impegno che coinvolge coloro che si occupano di lavoro culturale, oggi, è quello di fornire la capacità di interrogarsi sulle ambiguità e sulle incertezze.
Parole di guerra
Negli ultimi decenni si è assistito alla tendenza alla rimozione linguistica della guerra anche in caso di flagrante belligeranza; questo fenomeno è stato dimostrato nel caso dell’invasione russa in Ucraina, tenuto conto del ricorso del Governo della Federazione Russa alla nozione di “operazione militare speciale”, utilizzata per la prima volta da Vladimir Putin nel discorso del 24 febbraio. Nella Carta delle Nazioni Unite la guerra non viene mai nominata, ad eccezione dei passi in cui ci si riferisce ad essa negativamente. In modo paradossale, il lemma “guerra” è stato utilizzato in un’accezione del tutto metaforica nella mediatizzata politica contemporanea. Oggi è necessario fare un confronto con i cambiamenti prodotti in quello che era il moderno lessico statualistico della guerra dall’avvento di un nuovo spazio di esperienza politica introdotto dall’epoca globale, che ha apportato cambiamenti nelle modalità dell’esercizio e nelle modalità di legittimazione della belligeranza da parte degli stessi stati. L’epoca globale non ha saputo creare un nuovo concetto di guerra, rimanendo ancorata a un vecchio modello interstatuale. Oggi è nata una zona grigia fatta di innumerevoli sfumature, di fenomeni intermedi che non si è in grado di definire e regolamentare. È evidente l’incapacità di confrontarsi in maniera adeguata con le sfide prodotte dalle nuove forme di violenza organizzata dell’epoca globale. Sulla soglia della definizione linguistica della violenza in atto si giocano i destini della sua regolamentazione giuridica ed è questa la spiegazione principale di tale reticenza.
Lo sguardo delle donne sulle donne
Numerose donne, perlopiù giornaliste, costituiscono da qualche tempo parte integrante e sostanziale di numerosi dibattiti televisivi. Attraverso il loro sguardo prendiamo atto di una realtà che le vede come protagoniste. L’Unione Europea ha approvato un documento sull’impatto della guerra contro l’Ucraina sulle donne. Dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 5 maggio 2022 si evince che sono in 300.000 a combattere in questo momento in Ucraina; tale fenomeno non è certamente recente: già nel ‘900 le donne italiane ed europee si sono imposte come militanza attiva nella vita pubblica e nella guerra. Le loro storie sono state impresse nei testi più interessanti della letteratura, grazie a grandi scrittrici e storiche, che hanno demolito il senso comune che le vedeva estranee alle dinamiche del dominio e al piacere nell’esercizio della violenza fisica. Oggi le donne non temono di confrontarsi con l’orrore della guerra, rivendicando la loro cittadinanza attiva che, per anni, è stata prerogativa esclusiva degli uomini.
Food insecurity: emergenza alimentare in atto
L’emergenza alimentare in paesi di cui Russia e Ucraina sono i principali fornitori di cereali e grano, come Libano, Sudan ed Egitto è concreta. La recente guerra ha comportato l’incremento dei costi di spedizione e trasporto, a causa dell’aumento del carburante e dei tagli sulla vendita e sulla disponibilità delle merci. Mentre i paesi del Golfo riescono a bilanciare l’inflazione alimentare, con l’aumento delle falde petrolifere, paesi come Tunisia, Egitto e Libano, si trovano in una situazione disastrosa, come ha dischiarato il Ministero dell’Approvvigionamento dell’Egitto. Nel dicembre 2021 la Russia ha voluto sospendere un accordo con la Siria per la fornitura di un milione di tonnellate di grano. Il Libano ha problemi economici da mesi e ha perso gran parte della capacità di stoccaggio di grano a seguito della devastante esplosione del 2020 nel porto di Beirut. Oggi è molto discussa l’ambiguità di questi paesi nel prendere posizione nel conflitto dopo che, il 2 marzo, durante il voto alle Nazioni Unite per appoggiare la condanna all’invasione, si sono dissociati dalle sanzioni. Il mondo arabo, mediorientale, del mediterraneo allargato, che fino ad ora ha puntato a solide alleanze con Stati Uniti e Unione Europea, ha compreso la necessità di stringere ulteriori alleanze, anche a causa di un forte timore legato all’ipotesi di un’emergenza alimentare che potrebbe portare a manifestazioni sociali che renderebbero concreto lo spettro di una nuova caduta del regime e una nuova ondata di primavere arabe.
Diritto internazionale e Nazioni Unite
Nell’ambito del diritto internazionale. anche quando l’uso della forza è legittimo, non significa che il suo utilizzo sia necessariamente legale; a tal fine, è necessario il rispetto dei requisiti della necessità, della proporzionalità e dell’immediatezza, nonché delle norme del diritto internazionale umanitario a protezione non soltanto dei civili, ma anche degli stessi militari, come i prigionieri di guerra. Il diritto internazionale umanitario deve essere rispettato da tutti i belligeranti, a prescindere dalla loro responsabilità internazionale. Attualmente, il trattamento riservato dai belligeranti russi ai prigionieri di guerra, viola le convenzioni di Ginevra del 1949 e i protocolli facoltativi del 1977, come hanno sostenuto diversi rapporti di ONG e gruppi Human Rights Watch. Per vincere la pace c’è bisogno anche di “Europa”, un soggetto politico indipendente da stati uniti e NATO, che dovrebbe proporre la convocazione di una nuova conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione nel nostro continente.
Asiatizzazione della Russia
Oggi, la prospettiva più pericolosa per l’ordine mondiale è quella di un’alleanza tra Russia, Cina e Iran, paesi legati non da ideologie, ma dal senso di rimostranza verso l’Occidente. I rapporti tra Russia e Cina si sono normalizzati nel periodo che va dal 2004 al 2008. Nel 2013 Xi Jinping ha esposto al mondo il suo progetto Belt and road, in cui tracciava il paradigma dello sviluppo previsto dalla Cina, in simbiosi con l’alleanza con la Russia. Rispetto al conflitto in corso la Cina non ha assunto una posizione radicale, astenendosi, ma è preoccupata dal disordine globale che potrebbe scaturire dalla situazione conflittuale tra Russia e Ucraina. La corsa verso est della Russia è correlata alla propria autonomia identitaria, politica e strategica dall’Europa e dall’Asia. La Russia è uno spazio imperiale, differente dallo spazio nazionale nel senso moderno del termine. Oltre alla necessità di pensarsi a un livello più ampio, da un punto di vista geografico, c’è anche la necessità, per la Russia, di riportare in auge il potere perduto a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, nei territori limitrofi. Questa guerra è, tuttavia, diretta prevalentemente alla neutralizzazione dell’Ucraina, per renderla una realtà territoriale dipendente dalla Russia, impedendo il suo passaggio allo spazio geopolitico occidentale.
Tra il 1943 e il 1946, Erich Hauerbach scrisse Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. Riprendendo la frase tratta da una vecchia poesia di Andrew Marvell, del 1650, che recitava «Had we but world enough, and time», egli descrisse la sensazione scaturitagli dall’osservare, esule dalla sua patria, alla distruzione dell’Europa durante il secondo conflitto mondiale. Con un forte senso di impotenza, Hauerbach contemplava l’urgenza di fermare la memoria di una civiltà che si stava disintegrando sotto i suoi occhi. Oggi assistiamo a una corsa che ha come traguardo quello della distruzione. Non c’è tempo da perdere.