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Le fake news e il mondo social, siamo più vicini o più lontani?

Polarization, information, opinions and other monsters è il titolo del seminario che si è tenuto ieri, 20 aprile 2023, nell’aula III dell’edificio di Matematica Guido Castelnuovo e che ha visto la partecipazione, in qualità di relatore, di Walter Quattrociocchi, professore di informatica e data science nonchè direttore del centro di data science del nostro ateneo. Il seminario, a cui hanno preso parte un numero cospicuo di studenti ma anche di professori di altre aree didattiche, è stato un illuminante e godibile dibattito che, grazie all’irriverente dialettica del professore – capace di servirsi di un linguaggio colloquiale e giovanile per esporre fatti scientifici complessi -, ha affrontato il tema sempre più chiacchierato delle fake news.
Quattrociocchi tiene subito a precisare sin da principio che quello a cui arriverà alla fine del seminario è frutto di un lavoro di decine di anni, cominciato quando era ancora un dottorando a Boston, ai tempi del blog del Movimento Cinque Stelle, e che, pur con molti progressi, è ancora in evoluzione.

Il professore parte subito smontando tutto ciò che noi sappiamo sulle fake news: le fake news sono un’invenzione. A primo impatto si percepisce nella sala una certa incredulità, sicuramente in risposta alla sicurezza spiazzante con cui il professore corregge una narrazione che siamo abituati ad avvertire come inequivocabile ormai. Secondo l’ottica di Quattrociocchi, che poi è un’ottica scientifica in quanto fondata sui sistemi di studio dei social network e dei loro algoritmi, non esistono notizie vere e notizie false. La dinamica di trovare un vero e un falso è un prodotto del giornalismo degli ultimi anni, che, essendosi trovato spodestato dal ruolo di gestore della massa informativa, si è dovuto reinventare un ruolo e – forse- anche un lavoro.
Questo modo di vedere la verità e di interpretarla è quello che oggi si suole definire “positivismo ingenuo“, erede diretto dell’illuminismo: l’essere umano è un essere razionale che giudica il reale sulla dicotomia intransigente di vero e sul falso. Negli ultimi anni addirittura l‘Oxford Dictionary ha parlato di una nuova era, quella della post-verità: l’emotività ha più peso rispetto alla descrizione del fatto.
Il professore, mostrando una serie di slides divertenti e coinvolgenti, ribadisce però il concetto: questa è un’assurdità, perché l’uomo di per sé non compie mai scelte per via razionale, ma sempre come imperativo irrazionale.
La ricerca che ci mostra, inizialmente partita come “cazzeggio“, diventa man mano più seria quando viene fuori l’ipotesi che esistano delle precise leggi alla base del comportamento degli utenti che, nel mondo di oggi, sono da studiare nell’uso dei social.
Un esperimento fatto dal suo gruppo di ricerca nel 2013 consistette proprio nel diffondere, in un momento storico molto particolare per l’Italia, un’immagine di Sandro Pertini e accanto una frase che pronunciò: nel 2013, durante la cosiddetta rivolta dei forconi. Emerse un’impressionante risposta mediatica: la foto girò ovunque e divenne oggetto di dibattito addirittura in salotti televisivi di livello nazionale.
Questo ci mostra come si possa parlare di una teoria agenda setting, un’ipotesi che ritiene che l’importanza di un’esperienza dipenda esclusivamente da quanto venga “spammata” sui social, cioè da quanti likes e tweets riceve. Ciò dopotutto è ciò che Zuckerberg aveva in mente quando fondò Facebook e che nei fatti si è realizzato oggi: togliere potere alle redazioni e darlo al pubblico, sicché sia il pubblico, e non più i mezzi di informazione, a decidere quali notizie vadano prese in considerazione e quali no. Basti pensare che attualmente il 74% degli utenti si informa quotidianamente solo sui social.
Creare informazioni false, allora, è semplicissimo ed è un trucco in cui tutti possiamo cascare, perchè chiaramente senza un contesto di riferimento qualsiasi cosa può essere messa sui social e può diventare credibile: pensate che addirittura il governatore del Texas avvertì le unità di polizia dello Stato dopo che sui social iniziò a diffondersi la notizia che Obama stesse preparando un colpo di stato contro di lui.
Siamo ancora sicuri allora che chi crede alle cosiddette fake news sia un imbecille? O forse un po’ tutti, in modi diversi, lo siamo?
Un altro esperimento fatto dal professore su Facebook Italia e USA dal 2010 al 2014 mostrò che l’essere umano tende a funzionare come un echo-chamber, cioè a radunarsi, soprattutto sui social, in gruppi polarizzati che non si intersecano mai. Chi si ritiene complottista non cambierà idea, così come chi non lo è. Chi segue fonti scientifiche continuerà a informarsi con esse, chi non le segue continuerà a non farlo. E queste categorie di utenti non andranno mai incontro gli uni agli altri.
L’unione fa la forza, dopotutto. I social diventano così una massa profondamente divisa che usa un linguaggio aggressivo, senza alcuna possibilità di pluralismo o mediazione.
Gli algoritmi, continua Quattrociocchi, dei social tendono a connettere utenti che hanno la stessa visione del mondo e a bannare chi non rientra nel credo narrativo dominante. In parole povere chi non condivide le posizioni degli investitori, delle società pubblicitarie e dei gruppi politici da cui provengono i proventi è escluso. Questa, però, non è una cosa positiva, perché chi viene bannato dai social “main stream” tenderà a raggrupparsi in social di nicchia (come ad esempio The Truth per i seguaci di Trump) che possono essere potenzialmente molto rischiosi.
L’ultima parte del seminario è dedicata agli studi svolti dal professore e dal suo team sul Covid che sono sorprendenti se prendiamo in considerazione la campagna pubblicitaria che è stata fatta in televisione per esempio: studiando le ricerche e le interazioni social delle prime fasi del Covid e dei vaccini, si scopre che l’80% degli italiani era pro-vax, il 14% era indeciso e solo il 3% contrario. Presentare continuamente come allarmante soltanto una parte della narrazione è stata una deleteria campagna di disinformazione, perché ha finito per esacerbare – anche legittimamente – i dubbi degli indecisi facendo sospettare loro che ci fosse qualcosa che si voleva tenere nascosto.
Si capisce allora che, nella dinamica social, il livello di tossicità dipende dal numero di utenti polarizzati che ci sono in una conversazione: più ce ne saranno più la conversazione tenderà a essere un disastro.
Al netto di quello che sembra, dunque, benché siamo connessi continuamente e nonostante ci vengano propinate una democratizzazione e una libertà sorprendenti, ciò che emerge dagli studi scientifici del professore – che sono state e sono oggetto di collaborazione con il governo inglese – è che i social ci dividono sempre di più e che nessuno – proprio nessuno – può pensare di escludersi dal vortice delle notizie ingannevoli.
Cosa si può fare allora? Il professore, in risposta alle molte domande che hanno seguito il suo intervento, specifica che lo studio e la formazione culturale sono le uniche armi che possono arginare la tempesta verso cui stiamo andando incontro.