Ieri, giovedì 11 maggio 2023, si è tenuto nell’aula 3.01 dell’edificio D del complesso in via Regina Elena il seminario Migrazioni, asilo, sfruttamento in una prospettiva di genere che ha visto la partecipazione centrale della prof.ssa Enrica Rigo, docente di Filosofia del diritto dell’Università Roma Tre, e Luca Scuccimarra, Senior Fellow SSAS, Classe accademica delle scienze giuridiche, politiche, economiche e sociali. Il seminario, che rientra nel progetto sulle migrazioni e le loro caratteristiche promosso dalla SSAS, si è concentrato sull’osservazione del problema migratorio – e le sue risposte amministrative e giuridiche – dal punto di vista delle discriminazioni di genere e della critica femminista. Si parla, ormai quotidianamente, di fenomeno migratorio, ma la domanda che si pone la prof.ssa Rigo, alla quale risponde efficacemente instaurando un dibattito che di accademico non ha niente, è sorprendente. Spesso tendiamo a parlare di migrazioni in termini statistici, demografici, politici persino. Eppure, esterrefatti, dobbiamo constatare che il patriarcato e le sue forme discriminatorie verso le donne si insidiano non solo nelle nostre “evolute”, o presunte tali, società moderne ma anche in fenomeni così urgenti quali le migrazioni. Tutto ci aspetteremmo, tranne una discriminazione di genere. O forse, proprio perché ce l’aspetteremmo, non ci viene in mente neanche di porci il quesito.
La professoressa, introdotta da delle domande guida di Scuccimarra, presenta il suo ultimo libro uscito “La straniera” che affronta proprio il tema della richiesta di asilo da parte delle donne migranti e le gravose problematiche che ne scaturiscono. La sua presentazione parte da un’esperienza pratica e militante, frutto del lavoro nella clinica legale da lei messa a punto per occuparsi proprio delle ingiustizie che sussistono, dal punto di visto giuridico, quando una donna arriva in un Paese nuovo. Come suggerisce anche il titolo, il libro si rifà a Lo Straniero di Simmel, opera da cui emerge che lo straniero, colui che occupa un determinato spazio, scambia la sua laboriosità e il suo operato con il diritto a rimanere e stare nella comunità che lo accoglie. O detto in altri termini: produce, lavora e quindi può dirsi uguale agli abitanti dello spazio che occupa.
Nei nostri ordinamenti, europei e italiani, il riconoscimento, legale prima e umano poi, passa giocoforza per una dichiarazione di produttività. Chi lavora, resta e può accedere ai suoi diritti. E cosa succede se non c’è merce sa scambiare o se ciò che si può scambiare non ha un riconoscimento?
Questo è il problema fondamentale della divisione sessuale del lavoro, tra una produzione – che è affidata agli uomini – e una riproduzione femminile. Una donna, anche se non è produttiva, innegabilmente è riproduttiva, perché si occupa dei figli, perché pulisce la casa, perché si occupa di tenere in ordine il posto di lavoro del marito, perché si dedica a lavare i vestiti del marito e così via. Questa forza lavoro, senza la quale non ci sarebbe la possibilità per l’uomo di poter essere produttivo, non ha alcun valore legale. Questo significa assumere che “il capitale, cioè la merce di forza lavoro, viene mantenuto da una mole incredibile di lavoro non pagato che è il lavoro delle donne“, chiarisce Rigo.
La divisione, perciò, tra lavoro che vale e lavoro che non vale, per cui si assume che il primo concede diritti d’asilo e il secondo no, è una delle più viscide, ma celate, affermazioni di mantenimento di quella logica maschilista e capitalista che vuole far apparire “neutro” qualcosa che, se ben scavato, è tutto tranne che questo.
A tal proposito, la prof. riporta anche un esempio concreto di una donna da lei seguita nella richiesta d’asilo che, dopo essere arrivata in Italia ed essere stata trattenuta a Ponte Galeria vicino Roma, venne rispedita al suo Paese d’origine in quanto non accordatole il permesso d’asilo. La sentenza, durata ben tre anni, si bloccava di continuo perché la donna non voleva ammettere, a buon diritto, di essere stata vittima di tratta. In Italia, infatti, solo se ci si dichiara vittime di tratta si può sperare di vedersi concesso il diritto d’asilo. Essendo la donna in questione arrivata con un aereo e non tramite una tratta, l’asilo tardò ad arrivare.
Ecco, dunque, un’altra sottolineatura di come il diritto e i suoi confini non siano mai neutri: il riconoscere un diritto d’asilo solo a chi si dichiara vittima di tratte significa “rimandare il problema“. Esotizzare la violenza, assumendo che ci siano degli stranieri – magari nord-africani – che abbiano tutte le colpe di un’immigrazione incontrollata e che loro e soltanto loro siano i responsabili di simili barbarie. Ne deriva una costruzione sociale, che tende a narrare il fenomeno migratorio – e soprattutto quello delle donne – in un modo unico e ripetuto, legittimando – sotto banco – il rifiuto a moltissime richieste d’asilo da parte di donne.
Situazioni come queste, chiarisce la prof.ssa in risposta alle molte domande finali, non fanno che rimarcare in maniera lampante che se emigrare è difficile per un uomo, è impossibile per una donna. Almeno al giorno d’oggi. Almeno fino a quando certe pratiche coloniali, e patriarcali, sopravvivranno.