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Fare i conti con il femminicidio: dati, norme, informazione

Mercoledì 31 gennaio 2024, presso il Dipartimento di Filosofia della Sapienza, si è tenuto il seminario “Fare i conti con il femminicidio: dati, norme, informazione”.

Introdotto e moderato da Martina Barnaba, dottoressa di ricerca all’Università La Sapienza di Roma, l’incontro svoltosi è stato il primo di un ciclo seminariale, organizzato e ideato dai ricercatori e dalle ricercatrici di Villa Mirafiori, che prende il nome di: “Che genere di violenza? Sguardi critici sulla cultura patriarcale”. Si tratta di una serie di conferenze multidisciplinari che vertono sul tema della violenza di genere e della cultura patriarcale, affrontate da prospettive diverse non riguardanti esclusivamente l’ambito filosofico e teoretico ma anche quello tecnico e pratico. L’idea è scaturita dalla necessità, dati i recenti fatti di cronaca, di avviare, in merito al tema della violenza di genere, un vero e proprio spazio di riflessione.

Ad aprire le danze è stata proprio la dottoressa Barnaba la quale, dopo iniziali saluti e ringraziamenti, ha introdotto il tema di cui si sarebbe discusso e, successivamente, presentato le voci che sarebbero intervenute. Nella giornata di ieri, infatti, si è partiti dall’analisi dei dati e dalla loro comunicazione, nonché dalla legislazione vigente, per prendere coscienza della sistematicità e gravità del fenomeno. A ragionare su tali argomenti sono state le personalità di Marina Musci (statista), Tatiana Montella (avvocatessa penalista femminista e collaboratrice della clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza) e Chiara Nardinocchi (giornalista femminista del gruppo Gedi), le quali hanno trattato la questione dal punto di vista dei diversi ambiti professionali di loro competenza. 

La prima relatrice a prendere parola è stata Marina Musci, la quale ha voluto affrontare la questione della violenza di genere e del femminicidio tramite gli elementi della statistica, argomentando inoltre riguardo la loro trasmissione. Agli occhi della statista, gli ingredienti di base sono rappresentati dai dati, analizzati ed interpretati con lo scopo di delineare tale fenomeno collettivo, a partire da diverse domande conoscitive, dalle più banali come “quanti individui sono presenti in Italia”, a quelle più specifiche come “quante donne subiscono violenza in Italia”. La Musci tende a sottolineare il modo in cui la statistica ci ponga di fronte a due strade: una prima via, che assume come suo punto di partenza dati esistenti, ovvero non generati appositamente per descrivere il fenomeno di interesse ma per altri scopi; una seconda, che parte dalla generazione di nuovi dati, costruendo una rilevazione che è progettata appositamente per designare un certo fenomeno.

Nel caso della prima i dati già pronti, alle volte, non sono altro che approssimazioni assai imprecise del fenomeno. Solitamente, per misurarlo, il dato utilizzato è quello delle denunce; il problema sta nel fatto che, nel momento in cui avviene un incremento dei numeri, si tende a pensare che la violenza aumenti, ma non è così. Il dato trasmesso, infatti, descrive unicamente quanti individui denunciano, e non il motivo. Presenta certamente diversi vantaggi, quali l’accesso a dati gratuiti e disponibili fin da subito, ma è consigliato usarlo solo per rappresentare le denunce nel loro insieme. In relazione alla seconda via, l’indagine proposta è quella campionaria, rivolta ad un numero ristretto di unità campionate in modo tale da rappresentare l’intero numero di interesse. 

In generale quello della violenza è un fenomeno complesso, multidimensionale, che si esprime in svariate forme, come violenza fisica, sessuale, economica, psicologica, spesso invisibile poiché non viene sempre denunciata, per cui misurarlo diviene molto complicato. 

Bisogna far emergere il sommerso, rendere visibile ciò che non è visibile, ed è un compito alquanto complicato.” (Marina Musci)

Come si può, dunque, riuscire nell’intento di valutare un fenomeno così complesso senza essere in possesso di un dato di riferimento? La Musci risponde, sostenendo che è possibile solo tramite una conoscenza teorica mista all’esperienza sul campo: solo testando e ritestando si può giungere al dato reale. La statistica vuole comunque sottolineare che il problema è rintracciabile nell’utilizzo del termine “violenza”: inizialmente, infatti, se lo si riferiva al comportamento di una persona vicina, come un partner, non era ritenuto consono, poiché si utilizzava come scusante quella dell’amore che la donna affermava di provare nei confronti dell’uomo. A seguito di ciò si provò ad elencare una serie di episodi ed eventi in cui, l’intervistata, si poteva riconoscere, descrivendo l’atto senza connotarlo e rendendo esplicito il fatto che anche un partner potesse macchiarsi di questo. Problema simile fu posto nei confronti di un particolare modo di fare violenza, lo stupro: tendenzialmente si pensava che questo fosse compiuto prevalentemente da sconosciuti, soprattutto stranieri. In realtà, a praticarlo in maggior numero, erano (e sono tutt’oggi) i partner; il resto dell’insieme comprende conoscenti e, solo in minima parte, stranieri. Da statista, la Musci, si rende conto che il femminicidio non viene rilevato tramite indagine diretta, né tantomeno si possono fornire (o essere in possesso di) dati già pronti, in quanto il codice penale non prevede un reato in riferimento a questo termine. Ma si può disporre di un’approssimazione, ovvero quella degli omicidi di donna. La Musci ha concluso il suo intervento invitando il pubblico a porre l’attenzione sulla definizione della parola femminicidio, inteso come “non tutti gli omicidi di donne ma quelli di donne in quanto donne, espressione di volontà di dominio di possesso dell’uomo sulla donna”, da considerare dunque come un fenomeno strutturale, da parte di partner, ex partner o altri parenti. Una novità importante è stata quella di inserire tra questi modi di descrivere e riconoscere il fenomeno anche quello di “persona sia conosciuta che non ma che, attraverso un modus operandi o un contesto legato alla motivazione di genere, porta avanti un atto del genere“. Si studia il fenomeno e si cercano connotati che permettono di discriminare l’omicidio di donna da un femminicidio. Tra gli elementi di riferimento si fa caso al fatto che la donna sia vittima di tratta, di prostituzione, che non sia libera o sia stata violentata, o se si ammette una posizione gerarchica tra vittima e colpevole. Queste ultime, comunque, sono informazioni di cui non disponiamo, e scoprirle è uno degli obiettivi che si è proposto di raggiungere. 

Affermando in ultima battuta che alla società servano politiche di genere e non di contrasto alla criminalità, Marina Musci passa il testimone alla sua collega Tatiana Montella che, a fronte della sua professione, fornisce una visione prettamente giuridica. 

L’avvocatessa inizia a trattare la questione definendo la violenza sulle donne come un fenomeno radicato nella nostra società ed affermando con certezza che, una delle questioni sicuramente più complesse, sta proprio nel pensare che si possa intervenire con uno strumento particolare quale il diritto penale. Non essendo sostenitrice di una posizione punitivista ritiene che, l’accesso alla dimensione penale, abbia un senso e un significato che devono essere rispettati, e che rappresenti un errore insito nelle politiche – anche del nostro paese – pensare di poterlo contrastare alzando o meno la soglia punitiva dei reati, o intervenendo con aggiunta di norme. Così facendo, infatti, non si tiene in conto la complessità del fenomeno stesso. Pertanto, quando si parla di diritto penale e/o intervento penalistico, è possibile affermare che questo sia spesso sollecitato da quelle che possiamo definire “questioni di pancia”: esiste un effettivo compendio di norme, ma esse si modificano, cambiano, o se ne introducono di nuove. Queste ultime sorgono a causa di situazioni urgenti, bisogni espressi, ad esempio quando ci si trova di fronte ad un atto di femminicidio eclatante che scatena un’azione immediata. Per quante norme ci sono, però, tanti saranno i limiti stessi all’interno dei tribunali per quanto riguarda l’approccio corretto al fenomeno della violenza maschile (e non solo di genere) sulle donne. La Montella sottolinea inoltre che, in società, tanti e diversificati sono gli operatori che intervengono (polizia giudiziaria, pubblico ministero, etc.). Il problema sta nell’applicazione vera e propria della difesa, poiché non è presente un riflesso specifico che spieghi a tali operatori come agire. Di conseguenza, si è portati a sottovalutare indicatori di rischio e a non richiedere misure cautelari per la tutela delle donne. In Italia esiste tuttora il contrasto alla violenza dentro i tribunali, poiché ancora eccessivamente legati a stereotipi atavici sessisti, che hanno poco a che fare con l’apertura al fenomeno stesso. I pubblici ministeri, nonostante esistano, non chiedono misure cautelari volte a tutelare la donna nell’immediatezza, essendo influenzati da fattori quali conflittualità di genere, familiare e così via. Spesso, dunque, è presente uno stereotipo molto radicato che mostra il femminicidio solo come un atto di liberalità della donna, come se questa cercasse di svincolarsi dallo schema che la società patriarcale le impone, ovvero l’essere madre e moglie. Ogni gesto di liberalità produce anche una dimensione di violenza, e ciò porta a un’azione assurda e contraria all’interno dei tribunali stessi: non conformandosi allo stereotipo di genere radicato nella società, la donna diviene il vero soggetto del procedimento al posto dell’uomo. Quello che si richiede, spiega l’avvocatessa, per evitare ulteriori violenze, per giunta all’interno del procedimento penale, è un meccanismo che attui un altro tipo di intervento: specializzare, formare e preparare chi interviene dal punto di vista giudiziario all’interno dei tribunali, al fine di essere in grado di intervenire sul fenomeno stesso. Tatiana Montella conclude il suo intervento evidenziando quello che è ritenuto uno dei momenti più atroci della questione: quel momento in cui, durante il procedimento, a testimoniare è la donna. In questo caso ci si basa su un elemento di credibilità ed attendibilità del racconto della persona offesa. L’assoluzione o la condanna poco rilevanti hanno a che fare con i pregiudizi culturali che il giudice ha all’interno del procedimento penale: si inverte quindi l’onere della prova, ed è la donna a dover convincere il giudice che ha realmente subito violenza, non l’uomo che è imputato. 

L’ultima a parlare è stata Chiara Nardinocchi, la quale si occupa del fenomeno dal punto di vista del contesto redazionale. La giornalista interviene affermando che, parlare di violenza di genere, risulta molto complicato. Il fenomeno, infatti, presenta svariate zone d’ombra e confini non molto chiari, nebulose pericolose nella comunicazione di dati non omogenei, da un punto di vista, oltre che di dati, anche di leggi. Comunicare ai lettori, quindi, diviene difficoltoso. Per giunta, l’utilizzo di termini erronei e fallaci rende ancora più complicata la comunicazione, che verte su un linguaggio quasi prettamente maschile, o addirittura patriarcale. Inoltre, secondo l’esperienza della giornalista, i media impongono al contesto redazionale un ulteriore sforzo di velocità non indifferente e, se non si possiedono strumenti culturali o di sensibilità, si può facilmente “prendere uno scivolone”. La Nardinocchi, pertanto, ha proseguito il suo intervento con quello che lei stessa ha definito “gioco di parole”. Ha raccontato di essersi addentrata nell’archivio di la Repubblica, questo catalogo elettronico che si snoda dall’84 fino ad oggi, con il fine di comprendere il corso della trasformazione – linguistica e culturale – che è avvenuta in questi anni: qualcosa, infatti, è fortunatamente cambiato in meglio. Secondo quanto riportato dalla collaboratrice del gruppo Gedi, la prima volta che la parola femminicidio venne usata nell’ambito del giornalismo fu nel 2001. In seguito, nel 2002, venne impiegata nell’accezione di uccisione di donna in contesti di arretratezza sociale e culturale, come il Pakistan e l’Afghanistan. Poi, tra il 2003 e il 2010 venne operata 27 volte, spesso all’interno della discussione del suo uso e, in altri casi, in modo scorretto. Inoltre, negli anni che vanno dal 2011 al 2024, il suo utilizzo salì a 5547 volte: tale dato è indicatore del fatto che, in questo periodo, qualcosa stava effettivamente cominciando a cambiare. La Nardinocchi, dunque, ha proseguito il suo intervento riagganciandosi alla collega avvocatessa, introducendo il termine “raptus di gelosia”, impiegato 379 volte come locuzione volta a giustificare tutti gli atti di femminicidio dall’84 ad oggi.  Altro vocabolo che la giornalista riporta per avvalere le sue tesi è “delitto passionale”, utilizzato 609 volte. Dal 2020 al 2024, però, i numeri crollano, passando da 379 volte a 6  e da 609 a 44. Ciò fu dovuto al fatto che l’utilizzo di questi termini non era considerato adeguato. La comunicazione mediatica della violenza di genere è un tema gigantesco, sottovalutato per tantissimo tempo, il quale, ad un certo punto, si inserì prepotentemente, dando il via a quella che poi fu la vera accelerazione avvenuto tra il 2011 e il 2013. Prima di questo sviluppo la donna era ancora fortemente oggettivizzata e la narrazione della violenza di genere ferma agli stereotipi lontanissimi del tempo. A quei tempi la sensibilizzazione riguardo l’uso dei termini stava ancora nascendo. In seguito, ci racconta la giornalista, ci furono delle spinte esterne, come la richiesta di una maggiore sensibilizzazione da parte del lettore, ed interne, come l’aumento di figure femminili all’interno delle redazioni, che portarono allo sviluppo di una maggiore attenzione per i casi di femminicidio e/o violenza. Ciò è dovuto tanto ad un timore nei confronti di un giudizio esterno, quanto allo sviluppo di una più attenta sensibilità. Scavando nelle fondamenta e rinnovandole si è, dunque, promosso un lavoro di rieducazione e sensibilizzazione, sia sui contenuti, che sul vocabolario e linguaggio utilizzati. Purtroppo, ad oggi, non sono ancora presenti corsi di formazione strutturale ed è l’individuo che deve impegnarsi in ciò. La sensibilità riguarda anche le fonti, che spesso trattano questi argomenti con davvero poco tatto. La Nardinocchi conclude il suo intervento trattando, come ultimo argomento, il diritto che i cittadini hanno ad essere massimamente informati al momento della trasmissione di una notizia. A volte le informazioni sono colme di minuziosi particolari, alcuni dei quali possono dare adito a pregiudizi: dunque, come bisogna comportarsi in questi casi? Il cittadino deve comunque essere informato di tutto ciò che la notizia comporta, ma senza che costui possa mal interpretare il fatto, sviluppando così diversi preconcetti. Ci si augura che, lasciando aperto uno spazio di sensibilità, all’interno del quale ci si impegna a capire come comunicare gli eventi nel modo più corretto e completo possibile, la figura del lettore, a sua volta, si sforzi di leggere la notizia senza suscitare alcun tipo di pregiudizio.

Al termine degli interventi, questo primo incontro si è concluso con una serie di questioni e curiosità del pubblico, alle quali le tre relatrici hanno ampiamente risposto. La dottoressa Barnaba ha ripreso poi la parola per ricordare i successivi seminari e, in particolare, quello imminente che si terrà l’1 Marzo, sempre presso Villa Mirafiori. Il tema da affrontare riguarderà l’autocoscienza femminile e maschile, con ospiti Oria Gargano dell’associazione “Be Free” e Stefano Ciccone de “Maschile Plurale”.

Vi invitiamo dunque a prendere parte agli eventi organizzati dalle brillanti menti dei ricercatori e delle ricercatrici di Villa Mirafiori, per saperne di più su un fenomeno che, purtroppo, tocca ancora in maniera non indifferente la nostra società. 

Abbiamo posto alcune domande alle tre relatrici e all’organizzatrice dell’evento, di seguito le interviste:

      240131_intervistaamartinabarnaba
      240131_intervistaamarinamusci
      240131_intervistaatatianamontella
      240131_intervistaachiaranardinocchi

Per informazioni è possibile scrivere a seminari.mirafiori@gmail.com

Link Sapienza, Dipartimento di Filosofia

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