Realizzato nell’ambito di Biennale College, Il Mio Compleanno di Christian Filippi (Schicchera Production), presentato alla XXII edizione di Alice nella Città, volge uno sguardo coraggioso verso la condizione sfortunata in cui si trovano molti adolescenti con le loro famiglie di provenienza. Filippi dirige il suo primo lungometraggio con maturità e bravura, con un cast ispirato, rappresentato da Zackari Delmas, Silvia D’amico, Giulia Galassi, Simone Liberati, Federico Pacifici e Carlo De Ruggieri. Alla sceneggiatura Christian Filippi con Anita Otto e montaggio Tommaso Marchesi con la supervisione di Gianluca Scarpa.
Riccardino vuole una vita tutta per sé. Finalmente libera di cercare la sua strada. Il film si apre con Riccardino che minaccia di buttarsi giù da un rialzo, mentre i compagni della casa-famiglia lo sbeffeggiano da basso. Solo l’intervento della sua educatrice Simona lo riesce a calmare, lei è l’unica che riesce a comprendere i suoi tormenti e le sue fragilità. Zackari Delmas ci regala un’interpretazione profonda, rabbiosa, intrisa di emozioni che si manifestano plastiche attraverso una voce che sembra strozzata in gola in certi attimi; il volto riesce ad esprimere in ogni inquadratura una grande tensione, da cui scorgiamo fin dai primi secondi la sua personalità sofferta.
Riccardino è prossimo a compiere 18 anni, una data importante, che coincide con la sua decisione di vivere con la madre, la cui potestà le fu sottratta già da alcuni anni per problematiche varie.
Il regista, Christian Filippi, al suo primo lungometraggio, dirige gli attori con estrema sensibilità, supportandoli con una regia inizialmente più claustrofobica che privilegia i primi piani, annullando tutto il resto intorno, come se ci trovassimo anche noi a pochi passi dal protagonista. Man mano che la storia procede anche la regia trova maggior respiro, così come i personaggi – specialmente Riccardino – che assume sempre più consapevoli di sé e del suo rapporto (idealizzato) con la madre.
Ed è proprio la madre, intepretata da una grande Silvia D’Amico, il personaggio che muove la narrazione verso una direzione più intima e, soprattutto, assai complicata. Riccardino trova il modo di comunicare di nascosto con la madre rubando un telefono e fuggendo dall’istituto la notte prima dell’incontro in tribunale. Senza patente si ritrova con la madre a vagare senza una meta, loro due, insieme, e soli, in fuga dalle loro esistenze. Un viaggio che si comprende essere solo temporaneo, il giusto tempo per (ri)trovarsi sapendo anche di doversi lasciare prima o poi, ma poco importa.
Filippi mette in scena il dramma di una madre con difficoltà incapace di prendersi cura di un figlio bisognoso di affetto e di amore; di un ragazzo, Riccardino, che vive sì un tremendo dolore ma che grazie ad una sincera vitalità riesce a trovare la forza per andare avanti. La fotografia di Matteo Vieille Rivara è uno degli aspetti più interessanti del film, capace con i suoi colori e la sua luce a penetrare nello stato d’animo più profondi del protagonista. I blu della camera di Riccardino, come la luce ombrata filtrata dalla finestra del bagno, oppure l’illuminazione di alcuni esterni sembrano ricalcare atmosfere punk e underground. Ogni personaggio riesce a trovare la sua dimensione narrativa più adatta; la scelta di nascondere l’apprensione e tutto lo stato di agitazione degli educatori, di Don Ezio e delle relative forze dell’ordine lascia alcuni personaggi sullo sfondo per un po’ troppo tempo, con il vantaggio, tuttavia, di concentrare gli sforzi e l’attenzione sul rapporto madre-figlio, rimuovendo volontariamente tutto il resto.