Tra lunghi applausi e interminabili singhiozzi si conclude “We live in time” di John Crowley , presentato il 23 ottobre alla diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Ma è davvero un capolavoro?
WE LIVE IN TIME
Scritto da Nick Payne, in verità, si tratta solo di un’astuta ricetta: una storia d’amore alla base, farcita con una tremenda malattia, che innesca l’effetto “lacrima facile”, con una spruzzata di flashback per incrementare l’empatia dello spettatore, un tocco di comicità, che non guasta mai e, come ciliegina sulla torta, due star del cinema follemente amate dal pubblico, Andrew Garfield e Florence Pugh.
Ecco come gli ingredienti vengono messi in scena: Almut (Florence Pugh), chef stellata, e Tobias (Andrew Garfield), rappresentante della “Weetabix” appena uscito da un divorzio, si conoscono per caso quando lei lo investe con la macchina. Da questo incontro nasce una straordinaria storia d’amore: i due iniziano a convivere e diventano genitori. Ma, purtroppo, Almut riceve una diagnosi che sconvolge i suoi progetti: un tumore alle ovaie, una recidiva. Una nuova, dura prova per il loro amore da fiaba.
“We live in time”, un film di 104 minuti, di cui già il trailer dice tutto.
Vengono narrati in modo non lineare dieci anni della coppia Tobias-Almut, con un continuo alternarsi di passato e presente, rendendo lo spettatore partecipe e osservatore da un posto privilegiato, come fosse su un piedistallo: conosce ogni dettaglio dei protagonisti – forse persino più di quanto loro stessi sappiano l’uno dell’altra.
Ed eccolo l’ingrediente segreto, che tiene incollati allo schermo, la suspense, formula notoriamente hitchcockiana, ma che qui con il maestro non ha nulla a che vedere. Nel film, la suspense sostiene il punto di massima tensione, lo scontro tra Almut e Tobias: lei ha tenuto nascosto al compagno di aver deciso di partecipare alle selezioni per il Bocuse d’Or, gara mondiale di cucina, nonostante le sue gravi condizioni di salute, lui è sconvolto e non riesce a capacitarsi del motivo per cui ad Almut non basti la loro famiglia per essere felice. Tralasciando l’incredibile ottusaggine di Tobias, che meriterebbe un articolo a parte, forse è il caso di analizzare i due personaggi, essendo gli unici elementi su cui si regge il film.
Almut è una chef amante del suo lavoro, che conosce una tecnica infallibile per rompere le uova (romperle su una superficie piana); ha i piedi per terra, soprattutto quando si parla di sentimenti, ma sogna in grande per la sua carriera. Con Tobias è un colpo di fulmine, eppure il pensiero di creare una famiglia è alquanto prematuro, o addirittura neanche preso in considerazione.
Sarà questo il motivo della loro prima discussione, rivelata attraverso un flashback: lui sogna di avere un figlio e non immagina la sua vita senza, mentre lei, da “guastafeste,” non è nemmeno sicura di desiderarlo. Una pellicola piuttosto semplice e piatta, da lasciare spazio alla fantasia al punto tale da rendere meno surreale pensare che se per qualche strano e, totalmente privo di senso, caso la canzone Quando di Pino Daniele fosse giunta oltreoceano, Tobias avrebbe forse compreso che “chi vuole un figlio non insiste”.
Un rimprovero in fondo inutile, infatti i due innamorati avranno una figlia, dopo che Almut avrà sconfitto per la prima volta il tumore alle ovaie. Una commozione inevitabile, perché scontata, suscita la visione del test di gravidanza positivo, dopo vari tentativi falliti.
La commozione è controbilanciata dalla divertente sequenza del parto, che si svolge nel bagno di una stazione di servizio. Tobias-Garfield cerca di seguire in modo goffo le istruzioni telefoniche del pronto soccorso, mentre Almut-Pugh, con le sue urla di dolore, lo confonde ulteriormente.
Insomma, sono pochi i momenti da salvare tra un Andrew Garlfield costantemente con gli occhi umidi e pronto a prendere appunti durante la gravidanza della compagna e, poi anche nel periodo della malattia, e una Florence Pugh competitiva, aggrappata alla vita, che prova a dimostrare che essere donna non significa solo fare la madre, non riuscendo pienamente nell’impresa. Degna di nota, però, è l’innegabile sintonia tra i due attori, che restituiscono un amore intenso, sensuale e quasi irreale.
“Tutto il tempo che abbiamo” è la traduzione in italiano del titolo del film, un tempo che esiste, ma simultaneamente si annulla, superato dall’amore (soprattutto quello della famiglia), che resiste oltre ogni sfida e al di là della morte. Un concetto interessante, ma rischioso e, in effetti, è reso sullo schermo nel modo più banale possibile, attraverso una storia già vista, già letta e probabilmente vissuta anche dagli spettatori, una formula perfetta che tiene incollati alla poltrona con un fazzoletto stretto tra le mani.
E così “We live in time” con la pretesa di una romcom emozionante, intima, diversa dalle altre perché assorbe la tragicità della malattia, alla fine si iscrive appieno nel filone di “Colpa delle Stelle” (2014), oppure il più recente “Un metro da te” (2019). Probabilmente non vale l’esperienza in sala, che in Italia sarà possibile dal 28 novembre, ma lo spettatore non se ne rende conto, perché corrotto dalla commozione, si gusta una ricetta che, in fondo, funziona sempre.