Alle ore 17:00 di sabato 9 novembre è stato proiettato “Nu as,tepta prea mult de la sfârs,itul lumii” presso il Museo nazionale delle arti del XXI secolo “Maxxi”. Il film, diretto da Radu Jude, con il titolo inglese di “Do Not Expect Too Much from the End of the World”, è stato messo in luce in occasione della VII edizione dell’Euro Balkan Film Festival, che si pone da anni l’obiettivo di far conoscere in Italia le diverse espressioni culturali della regione balcanica.
L’opera cinematografica è divisa in due atti: “Angela: un dialogo una conversazione con un film del 1981” e “Ovidiu: materia prima”, entrambi introdotti da un’epigrafe; la prima tratta da un haiku di Yosa Busan che recita: “Vecchia coperta-cosa coprirò-la mia testa o i miei piedi?”, e la seconda da un aforisma del poeta polacco Stanisław Jerzy Lec: “Ora che la tua testa ha sfondato il muro, cosa farai nella tua nuova cella?”. Domande la cui risposta risulta inizialmente impossibile, ma a cui arriveremo in un secondo momento analizzando e scomponendo il film.
Nel primo capitolo si assiste all’interminabile giornata lavorativa di Angela Raducanu (Ilinca Manolache), tinta di un bianco e nero contrastato e granuloso che restituisce le immagini di una Bucarest grigia e di una Romania al tempo della guerra in Ucraina e della crisi post-pandemica, geografia di segni alienanti del consumo e del profitto. È proprio dentro questo scenario che Angela deve attraversare la città in auto per raggiungere gli appartamenti in cui vivono alcune persone che hanno subito gravi infortuni sul lavoro: il suo ruolo è quello di riprenderli con il cellulare per registrare un breve casting da inviare all’azienda austriaca per cui lavora, con lo scopo di trovare il testimonial per uno spot sulla sicurezza sul posto di lavoro.
Angela non si limita ad essere produttrice di immagini e contenuti solo nelle ore lavorative: anche al di fuori degli impieghi umilianti a cui è sottoposta e agli orari disumani che la costringono ad addormentarsi al volante dell’auto per la stanchezza, carica sui social network brevi video in cui, dietro al filtro dell’alter ego maschilista di Bobiţă (un uomo pelato con barba e mono ciglio), inscena monologhi grotteschi dal linguaggio volgare e provocatorio. Le sue non sono altro che caricature dei ricchi content creators che, mostrando vite fatte di eccessi e libidine, infestano quotidianamente i nostri dispositivi. Questo “secondo lavoro” però non le pesa particolarmente. Esso è infatti una valvola di sfogo personale; un modo di scaricare la tensione dopo estenuanti giornate trascorse in macchina, nonché un espediente per staccare dalla stressante realtà che è abituata ad accettare con sdegno.
L’odissea di Angela è arricchita dal lavoro metatestuale di Radu Jude, che riesce infatti a fondere due racconti in un unico percorso narrativo: il road movie di Angela, e dunque l’attualità, dialoga dialetticamente con la storia, ossia con alcune sequenze di un film del 1981 di Lucian Bratu, “Angela merge mai departe”. Quest’ultimo viene restituito con uno scintillante colore in 35mm e, ambientato nella Romania di Nicolae Ceaușescu, racconta la storia di Angela (Dorina Lazar), una tassista che si innamora di un suo cliente, László Miske, conosciuto in patria come “Vasile” per camuffare la sua origine magiara. Radu Jude preleva alcune scene del film degli anni ‘80 per rimontarle all’interno della sua narrazione, confrontando attraverso un montaggio analitico due epoche storiche e due soggettività femminili omonime nel contesto di due tipi di società post-totalitarie. Infatti, attraverso un sarcastico continuum tra finzione e realtà, viene messa in relazione l’antropologia umana della Bucarest di quarant’anni fa e di quella odierna: la Romania comunista di Nicolae Ceaușescu e quella capitalista facente parte dell’Unione Europea. Gli scambi restituiscono in maniera perfetta il baccano provocato dal conflitto tra il passato e il presente, tra il falso benessere della dittatura comunista e la farsa della contemporaneità.
Il secondo capitolo (“Ovidiu: materia prima”) è segnato da un’ulteriore lavoro di intreccio, che vede infatti l’ingresso inaspettato di Dorina Lazar e László Miske, i protagonisti di ‘Angela merge mai departe’, durante uno dei casting che sta svolgendo la nostra Angela contemporanea. I due attori esistono davvero; la loro storia è dunque reale. Ma, proiettati nella Bucarest di quarant’anni dopo, sono ormai anziani. Essi riprendono i ruoli che avevano nel film del 1981, come a dimostrare che il cinema di propaganda fosse la verità storica: sono infatti i genitori di Ovidiu, un uomo bloccato su una sedia a rotelle che verrà scelto come testimonial della campagna pubblicitaria realizzata dalla multinazionale per cui lavora Angela. Egli non è solo un congegno per unire i due film, ma il vero e proprio protagonista della testimonianza che occupa, con un’unica inquadratura fissa, gli ultimi quaranta minuti della sceneggiatura. Questo longtake finale è una messa in scena tragica e farsesca di una società che divora sé stessa, che si riproduce grazie allo sfruttamento dei più deboli e dei più poveri; di un mondo in cui il ricco e il padrone, detenendo i mezzi di informazione, possono reiterare l’inganno all’infinito, fino al ridicolo, al riso, alla commedia.
D’altronde, come già avvisava provocatoriamente il titolo, dalla fine del mondo non bisogna aspettarsi poi molto. La si può infatti già osservare nel lavoro precario e sottopagato, nell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e nella disinformazione della pubblicità e della società dei consumi. È proprio Angela che ce lo mostra vivendo semplicemente una sua giornata tipo. Lei è il perfetto prodotto della gig economy: una lavoratrice sfruttata, impiegata in qualsiasi lavoro e in qualsiasi condizione per 16 ore al giorno da una multinazionale austriaca, emblema di tutte le multinazionali occidentali che sfruttano i paesi dell’Europa Orientale. I video che registra Angela non solo denunciano la condizione miserabile dei lavoratori rumeni, ma rivelano con uno spietato senso dell’ironia la condizione di sfruttamento a cui è sottoposta lei stessa: sfruttati filmano sfruttati, alimentando l’inganno pubblicitario della multinazionale a cui non interessa minimamente della salute dei suoi dipendenti e della storia dei suoi testimonial. Nella società delle immagini infatti non basta neanche aver subito una terribile disgrazia per diffondere un messaggio: ciò che viene ricercato è meramente il volto giusto. Il suddetto concetto viene a galla quando un uomo fin troppo sfigurato viene scartato immediatamente dalla selezione poiché le sue cicatrici risultano fin troppo impressionanti per il pubblico.
È questo il desiderio dei colossi dell’economia: che il corpo si faccia immagine perfetta e che l’immagine si faccia a sua volta corpo; un corpo che deve quindi essere innanzitutto oggetto malleabile, falsificabile, controvertibile. La società ha bisogno di funzionare in questo modo per autoalimentarsi, e a mostrarcelo in diverse occasioni è il film stesso, prima con i video promozionali filmati da Angela in cui i lavoratori drammatizzano forzatamente il loro racconto per rendere il messaggio del video “più vero”, poi con i contenuti creati per i social da quest’ultima in cui un filtro si interpone tra la realtà e la sua rappresentazione, fino ad arrivare alla fine del film, in cui Ovidiu è costretto ad alzare dei cartelli green screen vuoti su cui interverrà la post produzione per scegliere a suo piacimento cosa fargli dire. Insomma, tutto è ritoccabile, come dimostra Radu Jude stesso inserendo spezzoni di un vecchio film del 1981 in uno del 2023; come rivela Doris quando dice che le ultime parole del suo lontanissimo parente Goethe non sono state “Mehr licht!”(“Più luce!”), bensì “Mehr Nicht” (“Non più”).
Non più…non più riusciamo a distinguere il reale dalla menzogna. Do Not Expect Too Much from the End of the World è forse prima di tutto riflessione sui modi di produzione di immagini all’interno della società dello spettacolo capitalista, nell’iconosfera post-moderna, dove convivono più dispositivi e più linguaggi, e in cui servirebbe prendersi un momento per chiedersi: chi è soggetto e chi oggetto dell’immagine? chi il suo produttore? in quale rapporto si trova con il reale? qual’è il suo grado di riproduzione, quale di falsificazione?
Per questo dietro ogni sequenza del film risiedono immancabilmente verità e falsità, realtà e finzione, tragedia e farsa.
Al termine della proiezione ha preso la parola la professoressa Mihaela Gavrila, docente Sapienza di Entertainment and Television Studies e responsabile scientifica di Radiosapienza e del Cinemonitor Osservatorio Cinema e Media Entertainment, che ha innanzitutto presentato le persone sedute al suo fianco in occasione del dibattito: alla sua destra Marco Lombardi, giornalista de “Il Messaggero” e docente della Sapienza, nonché fondatore del filone di pensiero della CineGustologia; e alla sua sinistra Claudio De Pasqualis, attore, conduttore radiofonico e autore del programma radiofonico di Rai3 Hollywood Party.
La professoressa ha voluto sottolineare il significativo utilizzo, a differenza degli anni precedenti, del prefisso “Euro” nel nome di “Euro Balkan Film Festival”, l’evento ideato dall’ambasciatore Mario Bova. L’obiettivo del festival è quello di far emergere il cinema rappresentativo di alcuni paesi che ad oggi rischia di rimanere un giacimento culturale, ma che di fatto ci aiuta a leggere, conoscere e reinterpretare alcune realtà che altrimenti rimarrebbero in ombra pur essendo parte fondamentale della cultura, del sapere e della sensibilità europea.
A detta della professoressa i temi che si delineano nel film ci accomunano: si parla infatti della condizione femminile, del lavoro, nonché di una società sempre più frammentata, composta da persone che interpretano un ruolo come se fossero in una specie di Free jazz delle parti; una società che ha un passato del quale ne risentono anche il presente e il futuro. Radu Jude ha infatti deciso di rappresentare il passato attraverso le immagini ovattate di un film del 1981, che permettono l’incursione della storia nell’attualità. Questa anomala convivenza di due opere così diverse diventa il pretesto per far dialogare virtualmente due generazioni molto distanti e delineare il contrasto tra il mondo post-totalitario e la colonizzazione degli spazi da parte del capitalismo. La tassista, ormai anziana, incarna il fallimento delle speranze progressiste del regime, mentre la nuova Angela, Angela Raducanu, rappresenta i vinti della società odierna, costretti a misurarsi con la precarietà lavorativa e l’instabilità del mondo contemporaneo.
Le due mostrano inoltre la centralità del ruolo delle donne nel film, dato che di fatto le vere protagoniste sono proprio loro. Infatti, ha continuato Gavrila, “a detta di una ricerca che ho letto di recente sui paesi che più riescono ad avvalorare il proprio Soft Power, si evince che le nazioni che si riescono a sviluppare con più efficacia sono proprio quelle che investono maggiormente nei giovani, nelle donne e nella sensibilità femminile”. Gli ultimi fotogrammi del film vedono proprio questo, il protagonismo delle donne: l’Angela protagonista del film degli anni ‘80 che ritorna nella sua veste di mamma di Ovidiu, la moglie e la figlia di quest’ultimo che partecipano allo spot, nonché l’Angela factotum precaria dell’impresa austriaca che assiste a tutto ciò.
Marco Lombardi ha poi proseguito dicendo che tutti i film, e quindi anche quelli apparentemente più semplici, vadano visti almeno un paio di volte per essere compresi a pieno. Ha continuato: “vorrei fare un conto numerico dei quaranta minuti finali delle riprese dello spot pubblicitario, una specie di costola impazzita di tutta la narrazione, e di tutte le parti del film che vengono girate nell’automobile di Angela. Entrambe sono i segnali di un film e di una cinematografia che si disinteressano della velocità contemporanea, e che piuttosto scelgono di dilatare il tempo, lasciando allo spettatore il giusto spazio per riflettere, ma generandogli al contempo un sanissimo sentimento di noia”.
Anche noi spettatori siamo persone del presente, ed essendo tali abbiamo un’abitudine alla frenesia per la quale, stando un po’ più del dovuto di fronte a qualcosa, ci sembra di perdere del tempo, ma l’otium Romano ci insegna che è proprio quello il momento in cui vengono fuori i migliori pensieri.
Le lente scene con la telecamera fissata accanto ad Angela che guida sono al contempo espressione della noia e della frenesia. Per lo spettatore la scena scorre a rilento e non ha quasi senso, dunque esteriormente il tempo si dilata; ma non dobbiamo dimenticarci che Angela, nell’inerzia della scena, sta lavorando freneticamente da ore: la sua vita indaffarata fa sì che a livello soggettivo il tempo si restringa e la sua giornata voli in fretta. Le scene in auto sono colme di significato, e ci lasciano il giusto otium per riflettere sulla quantità di tempo che perdiamo ogni giorno nel fare ciò che alimenta la società e prosciuga noi stessi. E ancora una volta è una scena lenta e silenziosa a mostrarci cosa ci aspetta alla fine di queste fatiche: la morte. Essa si manifesta quando Angela racconta a Doris dell’esistenza della strada “Buzăo”, che per i suoi duecentocinquanta chilometri è puntellata da seicento croci, memoria degli incidenti mortali che vi ci sono stati. “Ci sono più croci che chilometri”, sottolinea amareggiata Angela nel film. Esse sono le protagoniste di cinque struggenti e interminabili minuti in cui alcune fotografie mute che le ritraggono si susseguono staccando improvvisamente dalla scena.
Per Lombardi la fotografia è inoltre valorizzata dalla sintomatica alternanza di colori all’interno del film. I colori accesi del 35 mm dell’opera di Bratu brillano in modo talmente artificiale da dare l’idea di essere qualcosa di finto, come era del resto la rappresentazione della società in quell’epoca. L’iper colorato sfocia però nel contemporaneo e cupo bianco e nero, sporco e pastoso, girato in 16mm, che ci parla quasi più dei dialoghi di un film verbosissimo. La ricerca degli stati d’animo con l’ausilio di immagini dal tono tetro è, come sostiene il professore, quasi espressionista, dato che l’intima tragicità dei personaggi viene scagliata nella realtà sfatta in cui vivono, con un moto che va’ dall’interno all’esterno.
Egli ha quindi concluso, forse ribaltando l’idea di CineGustologia: “è un film che potrebbe essere una ribollita: una società che è stata cotta più volte al punto di perdere i suoi contorni, la sua dimensione, la sua identità. Ed è lì. A mollo”.
È poi intervenuto Claudio De Pasqualis, affermando di aver avuto l’occasione di conoscere una cinematografia di cui non era assolutamente al corrente. Egli ha scoperto alcune cose interessanti sul rapporto cinematografico tra Italia e Romania, come il progetto “CineRomit”, che aveva lo scopo di portare Cinecittà a Bucarest tra il 1941 e il 1946 e che produsse un film e mezzo. Da grande appassionato di cinema, De Pasqualis ha dichiarato di essersi sorpreso del fatto che nonostante il cinema dell’est Europa degli anni ‘70 abbia portato alcune chicche elogiate in gran parte del mondo, i rumeni siano stati spesso tenuti in disparte e poco considerati. Ma in realtà si è dato e ci ha dato una spiegazione attraverso le parole del regista rumeno Lucian Pintilie in un’intervista realizzata da Silvana Silvestri: “non era la censura, non era il governo, eravamo noi che ci autocensuravamo per non crearci problemi e per cercare un equilibrio che ci facesse rimanere in una zona di comfort, senza cercare slanci”.
Il conduttore ha dunque commentato il film, nonché l’antifrasi di suddette parole: “è stato iconoclasta, dettato da macchine fisse, come a dire «io sono così, vi voglio mostrare la mia realtà». L’analisi comparata con il film degli anni ‘80 è affascinante, tanto quanto la comparazione tra il vigore, la voglia, il lavoro e la fatica di Angela e l’aspetto algido di Doris, l’amministratrice delegata della multinazionale per cui lavora, che non a caso si chiama Goethe di cognome. Si tratta di due visioni dettate da vantaggi sociali; la diversità è questa: per Angela tutto sollecita impegno”. Quando però quest’ultima è costretta ad andare a prendere in aeroporto Doris, finisce per mentire a sé stessa affermando di non essere sfruttata. Le due parlano di sfruttamento sul posto di lavoro fingendo entrambe che le mansioni assegnate ad Angela rientrino nei diritti sindacali. Lo spettatore a questo punto si dovrebbe chiedere preoccupato: “siamo forse abituati anche noi ad accettare tutto ciò che ormai è consuetudine? anche noi ci sabotiamo in quanto convinti che le convenzioni della società siano legittime? siamo dotati del minimo senso critico? ci siamo per caso rassegnati a questo equilibrio scomodo?”.
De Pasqualis ha poi spostato l’attenzione su colui che ha reso possibile tutto questo, Radu Jude, che ha dichiarato in diverse interviste di non essere interessato a quello che pensa il pubblico. Egli non fa altro che documentare la realtà, difatti questo è un film documentario, che il regista dichiara “frammentario: in parte commedia, in parte film di montaggio, in parte road movie, in parte film di inquadrature costruite; sul lavoro, lo sfruttamento, la morte e la nuova gig economy. Allo stesso tempo è un film che affronta la questione stessa della produzione delle immagini. Tutto questo a un livello di superficie, ed è ciò che il film vuole essere: un film di superfici, un film senza profondità. Ed è un film che, per struttura e messa in scena, è ancora più amatoriale dei miei ultimi film”. Esso, continua De Pasqualis, “è un’opera cinematografica con una vena neorealista che si appoggia al ruolo della telecamera e alla violenza che esercita sui personaggi, che viene poi addomesticata e addolcita attraverso le parti più montate”. Jude avrebbe quindi sconvolto il ruolo del cinema mite del periodo comunista che non osava e non denunciava per scelta, anche se, come fatto notare da De Pasqualis, “in realtà all’interno di ‘Angela merge mai departe’ si possono già osservare timidi elementi di denuncia verso una società patriarcale, verso il maschilismo e verso gli orari di lavoro troppo prolungati”.
Ha poi preso la palla al balzo Marco Lombardi, affermando che, a livello creativo, viviamo nel mondo degli algoritmi. Egli ha infatti menzionato la scena de “Il Sol Dell’Avvenire” (Nanni Moretti) in cui in una riunione con la società di Netflix, i dirigenti continuano a spingere la creatività contro il muro del mercato ribadendo più volte che i loro prodotti vengano visti in ben 190 paesi. La scena ricorda molto l’episodio del film di Jude in cui il capo della multinazionale austriaca per cui lavora Angela irrompe nella riunione telematica con il team di lavoro chiedendo di parlare al più presto con il regista incaricato di dirigere lo spot; una volta che questo si fa avanti, gli dà una dritta: “solo una parola: emozione”, ed esce di colpo dalla videochiamata.
Un film di questo genere sfida questi artifici e se ne frega di acchiappare in tutti i modi il pubblico e le grandi masse: “è un contro-algoritmo”, aggiunge De Pasqualis.
La professoressa Gavrila ha infine concluso il discorso lasciando al pubblico una citazione tedesca di Friedrich Hölderlin:
“laddove è più grande il pericolo, cresce sempre ciò che salva”.
Nei paesi dell’area eurobalcanica c’è tanta salvezza, e cresce proprio in questi terreni che sembrano aridi. Con la sua opera Radu Jude suggerisce infatti di non guardare più la storia e il cinema come monumenti statici, ma piuttosto come archivi scomponibili e dialetticamente ricostruibili, composti di immagini e sequenze che custodiscono un senso da proteggere, svelare e trasformare a seconda della direzione e della qualità dello sguardo che vorremmo gettare sul mondo. Ma Jude suggerisce anche di non aspettarci troppo dalla fine di quest’ultimo, perché forse la stiamo già vivendo, e non possiamo fare altro che esorcizzarla con un’amara risata. Forse la nostra condizione è proprio esemplificata dal fotogramma di un orologio senza lancette sotto al quale c’è scritto: “È più tardi di quello che pensi”, che appare verso metà film. O magari dal fotogramma in cui viene immortalata una tomba con su scritto “non abbiate tenerezza nei miei confronti, tanto toccherà anche a voi”, che appare invece a inizio film.
Svelato il senso dell’opera, ci possiamo quindi dare una spiegazione alle domande poste dalle epigrafi che aprono i due atti del film. La prima, “vecchia coperta-cosa coprirò-la mia testa o i miei piedi?”, esprime il dilemma della coperta corta, secondo cui è impossibile coprire contemporaneamente testa e piedi poiché la coperta non è abbastanza lunga. In questa situazione siamo dunque costretti a scegliere tra due possibilità, ma nessuna delle due ci soddisfa pienamente. Allo stesso modo Angela, protagonista del capitolo, non sa’ se dare più importanza a sé stessa o al lavoro, e si ritrova in un limbo tragico in cui, oltre a compromettere la sua salute per lavorare efficientemente, non riesce nemmeno ad essere appagata da ciò che fa. Angela non può avere una coperta adeguatamente lunga perché è la società stessa a cucirgliene addosso una striminzita di nome “dovere”. Essa è essenziale per la sua vita e le può concedere il giusto necessario per non morire di freddo, ma non le regalerà mai la piena soddisfazione. Angela è la perfetta rappresentazione di tutti quei cittadini del mondo che lavorano perché devono, e non perché amano farlo. Si ritrova quindi nell’estremo bisogno di cucire sulla sua coperta una toppa che possa fungere da prolungamento: è proprio attraverso la creazione del personaggio di Bobiţă e della sua comicità sguaiata che riesce a concedersi rari momenti di spensieratezza. Si tratta infatti dell’unica situazione in cui Angela è il capo e la regista di sè stessa e fa’ davvero ciò che desidera. Proiettandosi in un altro contesto fittizio e parodico può infatti coprire testa e piedi contemporaneamente per qualche secondo, sfidando con la sua irriverenza il buoncostume della società per cui nutre rancore.
La seconda epigrafe, “Ora che la tua testa ha sfondato il muro, cosa farai nella tua nuova cella?”, ha invece un significato più velato. Anche in questo caso si tratta di una metafora, ma questa volta riguarda la situazione che colpisce Ovidiu. Quando davanti alla telecamera egli è finalmente in grado di denunciare i gravi illeciti commessi dalla multinazionale per cui lavorava, riesce anche a sfondare il muro del silenzio e dell’accondiscendenza con “la sua testa”, ossia senza il bisogno di affidarsi a terzi. Il che è sarcastico, dato che, parlando di “teste che sfondano”, non si può non pensare che sia stata proprio l’azienda a rompergli la testa e a mandarlo in coma a seguito dell’incidente quasi mortale causato dalla mancanza di illuminazione e dall’obsolescenza di una barriera stradale nel parcheggio in cui vi è la sede. L’uomo però si rende conto che, pur avendola sfasciata, non può uscire dalla “cella dell’occultamento” creata dalla multinazionale: egli verrà prontamente inserito con forza in un’altra gabbia. Lo capiamo quando durante lo spot gli viene impedito, mediante la minaccia di non pagarlo, di rivelare la circostanza effettuale che lo ha portato ad avere l’incidente; e ancora di più quando viene costretto ad alzare dei cartelli che verranno ritoccati con ciò che l’azienda vuole dire, senza che egli possa neanche più parlare. Ovidiu è in cella, e che la sfondi o meno, che cerchi di fuggirne o meno, niente lo tirerà fuori dall’immensa trappola della finzione che le big economy hanno il potere di creare. L’alternativa al soggiorno in queste mura è la fame, e quindi una vita miserabile. Ovidiu si deve pertanto arrendere ai poteri forti: ha bisogno dei soldi dello spot per sostentare sé stesso e la sua famiglia. Gli ultimi 40 minuti del film sono quindi tragicomici, a tratti esilaranti, ma lo spettatore prova un sentimento dolceamaro nel momento in cui si rende conto di essere divertito dalla crudeltà surreale e ridicola del mondo contemporaneo, che beffeggia i suoi sconfitti attraverso l’illusorietà delle sue immagini. La società continua a crescere, la coperta continua a rimpicciolirsi, e coloro che cercano di ribellarsi vengono rinchiusi in una matrioska di celle. Non aspettiamoci poi troppo…dalla fine di questo mondo.