È stata inaugurata mercoledì 22 marzo presso il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università La Sapienza di Roma la mostra dal titolo “Oggetti migranti. Dalla traccia alla voce” a cura di Barbara D’Ambrosio e Costanza Meli, in collaborazione con l’associazione Archivio Memorie Migranti.
Il progetto si basa su quella che è stata l’ultima volontà di Giuseppe Basile, storico dell’arte, critico d’arte, saggista italiano, specializzato nel restauro, ma soprattutto docente presso la Sapienza fino alla sua recente scomparsa nel 2013: la realizzazione di un Museo delle Migrazioni a Lampedusa.
La mostra espone il primissimo nucleo, restaurato dal professor Basile, degli oggetti appartenuti ai migranti e che sono stati rinvenuti sull’isola di Lampedusa a partire dal 2009. Non si tratta di una semplice esposizione di pezzi da collezione, ma di un lungo cammino all’interno di un impianto laboratoriale che vedrà l’organizzazione di proiezioni di film, vari incontri formativi e si concluderà il 10 aprile con una tavola rotonda in cui si discuterà di ciò che è stato carpito da questa esperienza.
Le curatrici della mostra, giovanissime e colme di passione, hanno conservato lo spirito del loro “mentore”, seguendo quello che si può chiamare l’imperativo che Giuseppe Basile aveva donato a questo progetto: dare voce a qualcosa che di per sè è muto, quindi un oggetto, ma che nasconde al suo interno una storia e una traccia lungo la quale chi osserva può muoversi. Egli amava maneggiare questi oggetti come fossero delle opere d’arte e in effetti lo sono, semplicemente per il fatto che raccontano una storia.
Il sottotitolo della mostra “Dalla traccia alla voce” esprime proprio questo concetto e anche l’allestimento della mostra riprende alla perfezione ciò che si vuole far arrivare. Da un lato vi sono gli oggetti, bacinelle per lavarsi, scarpe rotte, una mappa dell’Italia in lingua africana, un boccaio, tutti “buttati” lì, quasi a caso, senza alcuna didascalia a descriverli.
Come ha ben detto una delle curatrici, Costanza Meli: “Non è necessario che io ti dica che quello è un boccaio. Lo sai benissimo da solo.” Quello che invece è importante è la relazione che tu, osservatore, instauri con quell’oggetto; la tua mente, in quel preciso momento, inizia ad immaginarne la storia e il viaggio che ha compiuto. Se questo accade, lo scopo della mostra è stato raggiunto.
La parte più delicata della mostra è quella che riguarda invece il cartaceo: in questo caso la restaurazione, coordinata dal professor Basile e con l’aiuto della Biblioteca siciliana, è stata più lunga e minuziosa . Vi sono diverse testimonianze scritte, ma quelle che colpiscono maggiormente sono il diario di viaggio di un diacono etiope, contenente anche un breve epistolario scambiato con le sue sorelle, e un glossario in lingua inglese e bangladese.
Entrambe le testimonianze sono state dotate di un supporto audio, delle cuffie in cui poter effettivamente ascoltare le traduzioni e le storie di questi documenti: è un modo per entrare in maniera più intima e diretta nel travaglio di questi viaggi, che sono sempre lunghi, incerti e verso l’ignoto.
Al di là di polemiche, divisioni politiche e non, la mostra sembra voler essere un’opportunità per scavalcare qualsiasi pregiudizio e compiere con quegli oggetti il viaggio che loro hanno già fatto, in memoria di tutte quelle persone che hanno avuto il coraggio di partire senza una meta precisa, rischiando la propria vita.
Ludovica Mora