Si è tenuto quest’oggi, venerdì 12 maggio, presso l’Aula Magna del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale il convegno Media e Razzismo – l’Informazione che non discrimina. L’evento, organizzato dall’Università Sapienza di Roma con la partecipazione di Associazione Stampa Romana, Associazione Romni Aps Onlus, e l’8 per mille Chiesa Valdese, ha visto un’ampia partecipazione di esperti del settore come giornalisti e numerosi studenti.
Il dibattito è stato incentrato sulla responsabilità giornalistica nel diffondere e fomentare i discorsi d’odio e su come i media e l’informazione debbano esprimersi correttamente per eliminare le discriminazioni, ponendo il focus nei confronti della comunità Rom. In Italia, quando si parla di nomadi le generalizzazioni e i luoghi comuni sono ampiamente diffusi. Nel nostro paese, dicono gli esperti, c’è una vera e propria discriminazione in atto nei confronti di una comunità tenuta da sempre ai margini della società.
Dalle notizie diffuse sui media sembra che le comunità Rom e Sinti siano milioni e che abbondano sul territorio italiano. Ma i numeri dicono davvero questo? In realtà no, poiché in Italia le comunità Rom rappresentano circa lo 0,23 % della popolazione e sono uno dei gruppi più piccoli d’Europa. Parliamo, infatti, di una popolazione che conta tra le 150/170 mila persone. Sicuramente non sono questi numeri da invasione, come, invece, appare purtroppo dalla narrazione distorta e fallace di alcuni media mainstream nazionali.
Dall’incontro di oggi, è stato unanime l’avviso che compito del giornalismo è quello di utilizzare le giuste parole, poiché esse contribuiscono a creare l’immaginario collettivo sul fenomeno delle comunità Rom. Il portavoce italiano di Amnesty International Riccardo Noury si è espresso quest’oggi affermando che “questa narrazione nei media mainstream è un grave danno. Ma è un danno ulteriore se questa narrazione passa sui social, dove non c’è educazione, formazione e filtri di nessun tipo”. “La distanza tra noi e loro, questa distanza che li rende uno dei popoli più odiati in Europa. La scala di empatia li vede all’ultimo posto. Questo fenomeno ha un nome: Apartheid. Il compito dei mezzi di informazione ha l’obbligo di ridurre questa irriducibile distanza. Come? Raccontando chi sono, le loro storie, la loro povertà, cosa fanno, i loro comportamenti, dare un nome a volti che non ce l’hanno. Un compito a cui non ci si può sottrarre. Il rischio è enorme, ovvero stigmatizzare un popolo intero”.
Cosa comporta questa discriminazione nella comunità Rom? Una sorta di auto-discriminazione, che porta gli stessi membri di questa comunità a nascondersi, a non rivelare le loro origini. Ci si vergogna di dire di essere Rom. Le persone non hanno più coraggio di dire chi sono. Concetta Sarachella, in arte Sara Cetty, Presidente dell’Associazione Rom in Progress ha portato con sé una testimonianza diretta di questo fenomeno in cui racconta come sia diffusa che vi è “una visione distorta dei Rom. Siamo stanchi di questo odio mediatico. Sono persone che ogni giorno si alzano per andare a lavorare, che fanno sacrifici, che hanno una famiglia. Dov’è il diverso? Dov’è la diversità? Cos’è giusto o sbagliato? Abbiamo il coraggio di raccontare chi siamo?”. In una formula molto forte, le parole di Conchetta Sarachella fanno riflettere e ci ricordano l’importanza dell’impegno personale e mediatico nel considerare il diverso non poi così distante da come siamo abituati a credere.
Il professore Marco Bruno, di Storia e del Giornalismo e di Sociologia della Comunicazione sottolinea l’importanza della ricerca sistematica e della focalizzazione dei soggetti presi di mira svolta all’interno del Dipartimento CoRis e di come sulle tematiche sulle discriminazioni sia nata una parte importante della Carta di Roma. “Le evidenze sono tantissime nella ricerche e nella letteratura che spesso si va costruisce una stigmatizzazione dei soggetti”. Nel caso dei rom questa su processi di disumanizzazione che allontanano l’altro da noi seguendo un’ottica sicuritaria e che vede nella criminalità la saturazione delle narrazioni e delle percezioni.
“I giornalisti dovrebbero essere più sensibili nell’utilizzo dei linguaggi tanto quando parlando di economia o giurisprudenza“, afferma Bruno. Le rappresentazioni stereotipate sono intrinseche nella cultura e nella società contemporanea. Spesso, infatti, l’immaginario collettivo vede i rom come una comunità di ladri di beni, fino a spingersi a descriverli come invasori e occupatori di abitazioni o ladri di bambini.
“La mobilità che tanto viene incriminata ai rom diventa una dimensione paradossale poiché la società odierna si concentra sulla flessibilità. Dunque, questo universo semantico diventa un’alterità delle dimensioni strutturali della società contemporanea“, ha concluso Bruno.
“La realtà di per sé non può essere raccontata in tutte le sue parti, infatti, in base a una scelta editoriale si sceglie il modo in cui raccontarla appare molto strano, ma evidente, che la narrazione mainstream sui rom sia focalizzata soltanto a un’accezione e una rappresentazione negativa”, ha sottolineato il professore di Giornalismo Radio-Televisivo Christian Ruggiero.
“Una delle preoccupazioni su cui focalizzarsi, ha continuano il professore Ruggiero, è l’inserimento di fonti non verificate utilizzate per avvalorare delle tesi false e che possano incitare all’odio nei confronti della comunità o dei soggetti di cui si sta parlando“. Dunque, questo rientra nella costruzione del nemico e nella fomentazione dell’odio nei confronti delle minoranze.