Venerdì 10 maggio, alle ore 20:00, presso il Nuovo Teatro Ateneo, è stata rappresentata l’opera “Nakba: I nostri occhi sono i nostri nomi, XX calligrammi per la Palestina” di Enrico Frattaroli.
Essa è tratta dal romanzo autobiografico “Testimone oculare – Il libro del figlio” di Muhammad Al-Qaysi, in cui il testimone, all’epoca bambino, intraprende un viaggio sullo sfondo degli eventi storici che hanno sconvolto la Palestina a partire dalla fine degli anni quaranta: l’esodo del 1948, le peregrinazioni con la speranza di un ritorno, l’esilio definitivo, la triste realtà dei profughi.
Prima che lo spettacolo iniziasse ha preso la parola Marco Benvenuti, direttore di Sapienza CREA (il centro di servizi della Sapienza per le attività ricreative, culturali, artistiche, sociali e dello spettacolo), che ha espresso il suo senso di sgomento e di impotenza per ciò che ad oggi sta accadendo in Palestina. Egli ha espresso la sua convinzione nel ritenere che le università siano i luoghi in cui tutte le voci culturalmente qualificate debbano essere ascoltate. Proprio per questo il centro CREA ha aderito fermamente alla messa in scena di uno spettacolo che cerca proprio di dare voce, attraverso il linguaggio del teatro, a chi voce non ha o non ha abbastanza. Infatti, ha continuato Benvenuti, lo scopo del centro che dirige è quello di rendere l’Ateneo uno spazio aperto, plurale e libero attraverso un impegno culturale e più latamente civile.
Ha poi proseguito Gaetano Lettieri, direttore del dipartimento SARAS (Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo), sostenendo che la Sapienza, luogo aperto e libero, è ideale per effettuare un esame di tipo storico e artistico. In questo caso è il dolore profondo che un popolo sta vivendo da decenni e decenni a diventare motivo di riflessione storica. “La vulnerabilità è il centro di ogni nostro sforzo. È l’aspetto profondo dell’umano: ogni umano è tale in quanto vulnerabile e l’atto di cultura è sempre un atto di intelligenza e di cura nei confronti della vulnerabilità”, ha affermato il direttore. Cogliere quella del popolo palestinese in questo momento storico è un compito culturale fondamentale. Sapienza è sempre presente nella prospettiva del rispetto di ogni cultura e nella costruzione delle piccole cose che possono essere coltivate per il rispetto di una più ampia cultura, quella della pace. Egli ha concluso il suo intervento sottolineando l’impegno culturale, civile, artistico e politico che il regista Enrico Frattaroli ha assunto con la creazione e la messa in scena del suo spettacolo.
È stato proprio il regista a prendere la parola successivamente leggendo la poesia di Muhammad al-Qaysi che è stata utilizzata come colonna portante dello spettacolo:
“Un unico impegno mi sono assunto
allenare sempre i miei sensi
a percepire la terra,
per poi custodirla
nel marmo del canto!”
Quello di cui si parla è l’impegno dello scrittore verso la propria terra, la Palestina, una terra esiliata, immaginaria, fatta di parole, di racconti, di memorie, di dolore, di nostalgia. Per al-Qaysi percepirla e custodirla nel marmo del canto vuol dire farla esistere, resistere, sottrarla all’oblio, alla cancellazione a cui si vorrebbe destinarla. Per ogni scrittore palestinese scrivere è resistere, esistere, non morire una seconda volta. Frattaroli ha affermato che il suo impegno di artista teatrale è stato quello di percepire quella Palestina fatta di parole, poesia, musica, immagini, lingua, calligrafia araba; l’impegno di curarla, amarla e rifarne marmo anche del suo canto. Il popolo palestinese non sta resistendo solo per sé stesso, resiste per tutti noi, perché ha risvegliato le nostre coscienze, e l’ha fatto trasversalmente in tutti i paesi, in tutte le università del pianeta: “la terra di Palestina oggi è ovunque, per questo stasera ci ritroviamo qui, in Palestina”, ha concluso il regista.
Il suo lavoro è stato quello di riprendere il testo di Al-Qaysi e di disporlo secondo “XX calligrammi per la Palestina”, ossia venti momenti che scansionano l’intenso racconto poetico di Franco Mazzi, seduto alla sua scrivania, mentre sullo schermo alle sue spalle appare una suggestiva proiezione calligrafica in lingua araba ad opera di Amjed Rifai che si interseca con numerose immagini che richiamano la tragica vicenda palestinese. La vibrante lettura dell’interprete si incrocia con le note, ora dolci ora incalzanti, delle musiche palestinesi del Trio Joubran, con il flauto di Mohamed Al-Zamel, con il canto mawwal e la dizione in lingua araba di Samia Qazmuz Bakri e con il canto del soprano Patrizia Polia e del basso Federico Benetti.
La troupe è intimamente legata alla Palestina: il Trio Joubran è un ensemble di tre fratelli palestinesi virtuosi di oud, Samia Bakri un’attrice e cantante palestinese di Haifa, Mohammed al-Zamel un giovane palestinese nato nel campo profughi libanese di Burj al-Shemali. Amjed Rifaie è un calligrafo iracheno che ha trascritto in stile diwani nomi e versi dei XX calligrammi in cui si articola NAKBA. Frattaroli ha elaborato le loro composizioni da artista, “parlando la loro arte” attraverso la sua poetica: NAKBA non è un’opera di propaganda, è un lavoro politico nel suo essere essenzialmente poetico.
Essa, concepita e creata dopo il 7 ottobre, è stata elaborata da Enrico Frattaroli e Franco Mazzi nel corso di un intero anno. Nasce dall’urgenza di dare voce a coloro cui era negata: ai palestinesi, alle loro testimonianze, alle loro narrazioni, alla loro cultura; alla Palestina stessa. Urgenza di portare in teatro la loro poesia e la loro musica insieme ai volti e alle immagini della loro catastrofe. Dopo il 7 ottobre, il bianco e nero delle foto storiche ha virato ai colori delle foto di oggi, in cui nulla è cambiato, se non in termini incrementali di violenza, crudeltà, disumanità: genocidio. Il regista non ha preteso di parlare di loro o al posto loro: ha preferito piuttosto lasciarli parlare, ascoltarli, incontrarli nelle espressioni della loro resistenza artistica. Infatti lo spettacolo riprende le parole di “Testimone oculare-Il libro del figlio”, un testo di Muhammad al-Qaysi, un bimbo di appena quattro anni nel 1948, che ha “aspettato di diventare un poeta per raccontare gli eventi, per non morire una seconda volta”.
NAKBA (in arabo:CATASTROFE) è il termine con il quale, nella storiografia contemporanea, si indica l’insieme degli eventi che nel 1948, con la creazione dello Stato d’Israele in terra di Palestina, hanno comportato la pulizia etnica del paese e ridotto la gran parte dei palestinesi alla condizione di profughi. Ad essi Israele nega ogni diritto, tra cui il “diritto al ritorno” sancito dalla risoluzione 194 del 1948 delle Nazioni Unite.
L’opera teatrale coniuga il tema esistenziale, sociale e politico con l’espressione poetica sia del testo di al-Qaysi che del lavoro di Frattaroli: una partitura le cui dimensioni testuali, musicali, visive e teatrali si integrano quali gradi di libertà, di verità, di uno stesso spazio compositivo.
Muhammad al-Qaysi nasce nel 1944 a Kafr’Ana, un villaggio a undici chilometri ad est di Giaffa. Nel maggio del 1948, “un lontano maggio, indelebilmente impresso nel cuore di un bambino”, al-Qaysi ha appena compiuto quattro anni. Sono i giorni in cui, con la madre Hamda e la sorella Zakiyya, è costretto ad abbandonare Kafr’Ana (occupata e “ripulita” dall’Haganah fin dal 28 aprile) per rifugiarsi, insieme a “famiglie di parenti e vicini e a tanta altra gente, nell’immensa estensione di un frutteto”. Il bambino non sa, non capisce cosa stia accadendo, ma vede sua madre Hamda “in preda a una paura indefinibile”, “tormentata da un’ansia senza tregua e vulnerabile” come non l’ha mai vista. Un camion li tradurrà fino a Lidda, da dove inizieranno gli anni dell’esodo, del lungo, definitivo esilio da Kafr’Ana. Da due anni ha perduto, assassinato, il padre Khalil. Ad al-Gialazon perde la sorellina Zakiyya, avvelenata da un sorso di benzina spacciato per vermifugo. Perderà, ormai giovane adulto, la madre Hamda: Madre e Palestina insieme.
Uno spettacolo emozionante, una storia raccapricciante di un cittadino palestinese che non ha mai potuto vivere ciò che gli occidentali definirebbero “una vita normale”. Venti momenti tragici della sua vita; momenti paradigmatici, in grado di esternare il dolore di un intero popolo che non ha mai avuto abbastanza voce. Musiche, canti e calligrafie di una popolazione a noi lontana, momenti di silenzio che scatenano pensieri tonanti e immagini forti scaraventano lo spettatore in un altro mondo; un mondo privo degli agi che si danno per assodati, un mondo crudele, un mondo inumano. Una tragedia dopo l’altra e una conclusione senza lieto fine: lo spettacolo si conclude con la cruda affermazione: “Questa tempesta non finirà”. A seguire basta uno stimolo visivo per comunicare con lo spettatore, per avvertirlo: illustrazioni di ciò che oggi accade in Palestina, della tempesta che continua a colpire una terra stremata e un popolo ancor più stanco, accompagnate dal crescendo di una travolgente melodia palestinese, sono oggi il marmo del canto, o meglio, del grido, di un popolo fragile come calcare.