«Una zattera in forma di piccola scena approdava in teatro venticinque anni fa – scrive Ovadia – trasportava cinque musicanti e un narratore di nome Simkha Rabinovich, che raccontava storie di gente esiliata e ne cantava le canzoni. Dopo un quarto di secolo, Simkha e i suoi compagni tornano per continuare la narrazione di quel popolo in permanente attesa, per indagarne la vertiginosa spiritualità con lo stile che ha permesso loro di farsi tramite di un racconto impossibile eppure necessario, rapsodico e trasfigurato, fatto di storie e canti, di storielle e musiche, di piccole letture e riflessioni alla ricerca di un divino presente e assente, redentore che chiede di essere redento nel cammino di donne, uomini e creature viventi verso un mondo di giustizia e di pace».
Sul palco con Ovadia – autore, interprete e regista – ci sono i musicisti della Moni Ovadia Stage Orchestra (Maurizio Dehò, Luca Garlaschelli, Albert Florian Mihai, Paolo Rocca e Marian Serban), che suonano dal vivo. Artista ironico e auto-ironico, narratore dotato di una lucidità e di una profondità fuori dal comune e intellettuale poliedrico, Ovadia ha alle spalle una solida carriera artistica, quasi interamente dedicata alla conservazione e alla diffusione dell’antica cultura yiddish e dell’Europa dell’Est. Bulgara la nascita, greco-turca la famiglia del padre, ebraico-serba quella della madre. questo il suo albero genealogico: un crocevia di culture che dalla biografia si riflette sulla vocazione artistica. Uno spettacolo lirico e civile intessuto di umorismo e saggia leggerezza, come risposte dell’intelligenza alle avversità e al male del mondo, per dare voce – oggi come ieri – al bisogno di memoria, di giustizia e di pace.