Siamo nella cornice del centro di Roma, una cornice sospesa tra un insaziabile passato classico e il futuro che respira nelle bolle di sapone rincorse dai bambini a Piazza del Popolo. In una capitale amena e senza tempo che ci persuade e tra le cui braccia rimaniamo dimentichi della nostra Origine, ora, possiamo accomodarci di fronte a un artista che ci reca alla visione delle radici della nostra anima.
Il suo nome è Alberto Burri, una crasi perfetta tra scienza e potenza dello sperimentalismo espressivo, ma fermiamoci un attimo. La sua opera deve essere annusata come l’odore delicato di una quercia di Villa Borghese. Quella stessa quercia che abbraccia tramonti di pensieri che si espandono “nell’ombra incerta di un divenire”. Ebbene sì, un Burri è un De Andrè pittore. Ha dipinto l’inverno dell’anima e il rifulgere di essa e per vivere questa catarsi bisogna amarlo, sentirlo sotto pelle e poi custodirlo tra i ricordi più cari. Il suo ricordo sensoriale ha il gusto di un sapore dell’infanzia. L’intima bellezza dell’Opera di Burri risiede nella capacità di esprimere i graffi e le cicatrici di anime in fiamme che riescono a salvarsi e a trovare la propria zona di luce, il proprio porto sicuro. Rappresenta qualsiasi uomo che porta su di sè il carico di sofferenze e che da esse rinasce. E’ una stanza affollata dove ogni nessuno è un urlo rotto nel silenzio, è il buio della solitudine, l’Uomo platonico che visualizza il proprio mondo da prigioniero di una Guerra. Le sue sabbie e quegli smalti vestono della luce fresca l’alba un linguaggio ormai non più incastonato nelle pieghe del formalismo pittorico. Fu Origine, quella Scuola di Roma tanto attesa nell’avanguardia di una nuova spazialità.
Le superfici nodose de “I Gobbi”, “I Neri” con i loro funesti virtuosismi lasciano presto spazio a “Le Combustioni “, che come un buco nero ci catapultano nel grido di mostri reconditi. Era il 1957, l’annus mirabilis del Burri, magistrale matrice di tutte le sue fulminee trasformazioni. Ogni serie diventa icona della sua periodica storia. “I Ferri” ci parlano del suo ’58 piovoso, cervellotico, diffidente e a “I Legni” è lasciato l’arduo compito di raccontarci la sua combattuta ricerca di un equilibrio, così tanto anelato nelle simmetrie odor ciliegio del ’59. Lo si può ben vedere, è lungimirante e tangibile il bisogno di luce. La stessa che è manifesta nel suo bisogno di colore che non passa indifferente, ci cattura e ci ipnotizza. Sono due elementi che lottano per sopravvivere al buio che ha l’odore della plastica bruciata. Sono gli anni Sessanta e l’anima di Burri è finalmente nata, ha trovato la propria Origine. L’Opera dell’artista sa essere un po’ più di una figurazione. Dimostra un’esperienza di vita soave, intelligente, nebulosa e a volte iraconda che si fa fulgida su tela.
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma sta prestando al pubblico il percorso di un uomo con se stesso, naufrago della propria coscienza, nirvanico, introietto ed esplosivo. E’ un viaggio che ti abbraccia e bruscamente ti lascia al suo termine disorientato, interdetto, stravolto… ma innamorato, follemente legato alla tua anima. E l’anima riaffiora, si emancipa, si libera. Ora sì, ora posso sfiorare la mia Origine.