La recente attenzione alle vicende che mettono in relazione Starbucks (catena statunitense di caffetterie attiva dal 1971 e presente in sessantasette paesi con quasi ventimila punti vendita) e l’Italia suscita curiosità e pone interrogativi in merito a un modo di fare caffè che potrebbe sembrare lontano dalla tradizione nostrana. Il caffè è un infuso dalle origini antiche che accomuna socialmente le persone indipendentemente da classe, nazionalità, etnia: dall’imprenditore che attraversa New York bevanda alla mano, passando per lo studente universitario che ne abusa durante una sessione d’esami, al clochard che si gode un “caffè sospeso” a Napoli. Elemento ormai imprescindibile della cultura popolare italiana, divenuto per molti routine, tra il 2015 e il 2016 il caffè ha toccato un picco di consumo mondiale pro-capite di oltre i quattro chili annui (fonte: Coffitalia).
Le leggende sulla scoperta della bevanda nera si sono accavallate nel tempo, ma concordano tutte su una prima collocazione in Medioriente. Fu Francis Bacon il primo a fornire una descrizione (1627) dei locali turchi dove questa si poteva gustare. Da metà ‘600, essa iniziò a diffondersi in Europa e ne conseguì la denominazione “coffehouse” per i circoli frequentati da letterati, politici e filosofi in fermento per la circolazione di idee liberali a cavallo tra i due secoli. La diffusione nel resto del globo, con la conseguente nascita delle prime piantagioni su larga scala, avvenne a metà ‘700 in pieno periodo coloniale. Il consumo si è esteso in tutto il mondo, divenendo un elemento culturale, creando un’industria apposita e riuscendo a trasformare anche colossi poco dediti ad uscire dagli standard tradizionali (si pensi a McCafé).
A ognuno il suo. Considerato dagli italiani un prodotto esclusivo, convinzione anche forte del primato mondiale per la presenza di bar pro capite (centomila esercizi sparsi per lo stivale), il caffè ha però trovato una propria variante in ogni angolo del mondo. Al di là dell’espresso da venticinque millilitri all’italiana, si contano tante varianti nel globo: il caffè americano è composto da una dose di espresso e due di acqua calda; in Spagna si può gustare il caffè carajillo, costituito da una dose di espresso e una di whisky; la Germania ha la propria variante articolata (pharisäer) composta da un quarto di tazza di caffè, una zolletta di zucchero, due bicchierini di rum e panna montata; la Colombia è più soft con la chaqueta, una dose di caffè e una di aguapanela (zucchero di canna liquido); in Oceania il flat white offre espresso, latte al vapore e schiuma di latte. E tanti altri.
Perché Starbucks ha scelto Milano per approdare in Italia? Oltre alla vivacità sociale della città e alla concentrazione di attività dedite alla new economy, la scelta della città ambrosiana non è stata operata a caso: ai milanesi piace molto il caffè. La Camera di Commercio di Milano nel 2015 ha effettuato uno studio sul consumo della popolazione cittadina: nove milanesi su dieci lo assumono giornalmente, più della metà per piacere. Si tratta di un commercio che supera i venti milioni di euro mensili se si contano il consumo domestico e non, per un “costo di tempo” che per due milanesi su tre non supera i due minuti e che supera i venticinque euro di consumo a persona. Lo scetticismo in merito alla preziosità nostrana non tocca così tanti ambrosiani come si potrebbe immaginare: solo a uno su dodici piace esclusivamente l’espresso italiano e neanche l% viaggia con la moca in valigia.
Le ultime settimane stanno suscitando diverse questioni in merito alla resistenza dell’espresso italiano. Domande che troveranno risposta a fine 2018, periodo previsto per l’apertura del punto Starbucks a Milano, il cui amministratore delegato Howard Schultz promette decine di milioni di euro di investimenti e centinaia di posti di lavoro. Chi la spunterà tra il caffè italiano e quello americano?
Andrea Graziano