Martedì 22 maggio l’edificio di Genetica dell’Università di Roma “la Sapienza” ha ospitato il convegno “Certificazioni Religiose nell’Agroalimentare e l’Eno-Gastronomia: nuove opportunità per il territorio ed il made in Italy”, organizzato dall’Area didattica di Scienze e Biotecnologie e Agro-alimentari e dall’Istituto Alberghiero Artusi di Roma. L’obiettivo principale della conferenza è stato quello di avvicinare gli studenti degli Istituti professionali presenti sul territorio laziale ai Corsi di laurea in Biotecnologie Agro-Industriali e Scienze e Tecnologie Alimentari.
Dopo una breve introduzione sulla figura del tecnologo alimentare, la sua formazione e il suo ruolo, la giurista Monica Minelli ha analizzato gli aspetti giuridici delle certificazioni alimentari. Il suo discorso fatto chiarezza su cosa si intende veramente quando si parla di Regimi di Certificazione. Per spiegarlo è necessario fare una distinzione tra Certificazioni di Prodotto, il cui scopo primario è quello di valorizzare e differenziare determinate qualità di un prodotto o un servizio attestando che esso risponda ai requisiti prefissati e descritti da un documento normativo di riferimento, e Certificazioni di Sistema e di Processo, che assicurano la capacità di un’organizzazione di strutturarsi e gestire i propri processi produttivi secondo determinati standard riconosciuti a livello internazionale.
La certificazione della conformità ai requisiti del regime deve essere effettuata da un organismo indipendente accreditato. Sul mercato, però, esistono altri regimi, detti «regimi di autodichiarazione», che operano sulla base di un’etichetta o di un logo, generalmente registrato come marchio, senza prevedere alcun meccanismo di certificazione. L’adesione a detti regimi avviene con un’autodichiarazione o tramite una selezione operata dal gestore del sistema.
Una delle certificazioni più ricercate in questo periodo è quella di tipo religioso, in particolare la kosher, come hanno spiegato Pino Arbib e Jaqueline Fellus. Negli ultimi anni, le imprese che hanno deciso di adottare questo tipo di certificazioni hanno registrato un aumento del loro fatturato del 60%; il loro possesso premette inoltre di penetrare con più efficacia nei mercati internazionali, dove questi prodotti sono molto richiesti. Questo anche perché ormai la maggior parte dei consumatori di alimenti kosher non sono spinti da motivazioni religiose, ma dal desiderio di gestire meglio la propria salute, sfruttando la qualità superiore alla media e un maggiore livello di controllo della filiera produttiva garantiti da questo tipo di certificazione.
Per essere kosher (termine ebraico che significa “adeguato”) un prodotto deve avere caratteristiche molto precise e persino la sua lavorazione deve seguire regole molto ferme, durante la quale persino i recipienti devono essere lavati continuamente in modo da evitare ogni tipo di contaminazione. Qualunque violenza praticata sull’animale durante il macello lo rende impuro e quindi non mangiabile. Di conseguenza, a compiere l’atto è necessariamente un individuo specializzato in questa pratica.
Si è scelto di parlare di questa cultura alimentare ed enogastronomica per via delle radici profonde che ha nella società italiana. Le comunità ebraiche sono presenti nel nostro paese già durante ed oltre l’impero romano, hanno partecipato, emancipandosi, al nostro Risorgimento nazionale e resistito alle discriminazioni e le persecuzioni fasciste e naziste. Rappresentano indubbiamente uno degli aspetti più importanti della varietà culturale del nostro paese.
Marina Taliercio