Forse non tutti sanno che la Sapienza è dotata di un polo museale, per l’appunto universitario, che comprende musei come quello di anatomia, di antropologia, di chimica e d’arte contemporanea.
Cosa c’è da sapere sul Mlac. Tale museo è noto anche come Mlac e si presenta come un museo-laboratorio, progettato e realizzato da Simonetta Lux nel 1986. Esso nasce dalla necessità dell’instaurare un rapporto tra artista e opera d’arte, ma al tempo stesso va a conciliare l’aspetto formativo con quello più prettamente legato alla creatività. Nel corso degli anni il Mlac ha ospitato numerosissime mostre, lasciando quindi occasione di esprimersi non solo a studenti, ma anche ad artisti più maturi. Proprio in questi giorni abbiamo avuto modo di visitare l’ultima mostra esposta nel museo, dal titolo d’impatto “Che ci faccio qui?”, la quale si propone di mettere a nudo l’intimismo degli artisti e il loro modo di percepire il proprio “io” all’interno della realtà.
Il punto di vista del direttore. Claudio Zambianchi, professore associato presso la nostra Università, è da circa un anno direttore del Museo di Arte Contemporanea. Gli abbiamo chiesto se questo ruolo abbia contribuito ad arricchire la sua formazione e la sua risposta è stata senza alcuna esitazione positiva. Il Prof. Zambianchi ci tiene infatti a sottolineare come, trattandosi di un museo universitario, la sua esperienza in quanto docente non possa che giovarne ed aggiunge anche che il museo esiste proprio grazie ai ragazzi e agli studenti. Nel suo pensiero anche l’idea che l’arte contemporanea non sia di così difficile comprensione come i giovani sono portati a credere, allontanandosi quindi da essa. Stando alle sue parole infatti l’arte contemporanea, grazie alla sua dimensione “poli-mediale” (raggiunta abbattendo le barriere dei singoli media), e una volta fruita in maniera costante, potrebbe essere facilmente compresa ed entrare così a far parte della propria cultura. Passando poi a parlare della mostra in questione il Prof. Zambianchi afferma che, pur non essendosene occupato in prima persona , si tratta di una mostra ben fatta, che vale la pena di vedere, invitando così gli ascoltatori ad andare a visitarla, anche perché, come egli stesso dice, è gratis.
“Che ci faccio qui?”: concept e opere esposte. Fabrizio Pizzuto, curatore della mostra, noto sulla scena artistica romana ed ex allievo dello stesso Prof. Zambianchi, ha spiegato come il concept, ossia il lasciar spazio alla percezione del proprio intimismo, provenga da un tema personalmente ragionato e sviluppato in precedenza. Aggiunge poi però che, ogni qualvolta si organizza una mostra collettiva, ciascuna opera presenta una sorta di anima duale, la quale quindi da un lato si attesta attorno all’idea centrale dell’esposizione, ma dall’altro mantiene lo stampo, per così dire, dato da ciascun artista. Egli afferma poi che il tema trattato non è di certo un tema classico ma che lascia in ogni modo ampio spazio a differenti divagazioni, passando così a parlarci delle opere dei vari artisti.
Ci racconta dell’esibizione di Silvia Giambrone, messa in scena in occasione dell’inaugurazione della mostra. Questa, accompagnata da tre talentuosi artisti di teatro, si è esibita “sulle note” di una poesia di un autore bosniaco, dalle quale aveva eliminato qualsiasi elemento inerente la guerra. L’esibizione comprendeva la presenza di aste, alle cui estremità non erano inseriti microfoni ma oggetti di uso quotidiano (come la mezzaluna ad esempio), che tuttavia possono essere pericolosi e far quindi del male. In questo caso il “che ci faccio qui?” è quindi affrontato soprattutto seguendo una dimensione spaziale, ponendo quindi attenzione al dove si è.
Viene poi fatto riferimento a un artista italo-brasiliano, il quale propone un video nel quale viene messa in scena la sparizione nell’acqua, e ad un’altra artista che si occupa di fotografare quelli che lo stesso Fabrizio Pizzuto ha definito come “non luoghi”. Si tratta di corridoi di diversi palazzi abbandonati, che tuttavia presentano la medesima scena: spazi invivibili. In entrambi i casi non è stata data una precisa risposta a quello che era il concept iniziale ma si è lasciato spazio a quello che il curatore chiama invece lirismo, ossia alla possibilità di poter “rispondere” a questo interrogativo sulla base della propria interpretazione.
Davide Dormino ha affrontato il “Che ci faccio qui?” nei termini di una decontestualizzazione. Quest’ultimo infatti ha deciso di esporre un enorme teschio in legno che inizialmente doveva essere utilizzato per una fotografia. Tuttavia non si tratta del solo contributo dell’artista; egli ha infatti esposto per un certo lasso di tempo un’opera in esterna, che ora sta facendo il giro delle piazze d’Europa. Essa comprende quattro sedie, tre delle quali vedono erigersi sopra di esse personaggi che hanno pagato il coraggio di dire qualcosa. La quarta sedia viene lasciata intenzionalmente vuota, per far sì che ciascuno trovi il coraggio, a sua volta, di dire ciò che pensa e dare quindi un senso alla sua presenza.
Intervista a Fabrizio Pizzuto
Intervista al Prof. Claudio Zambianchi
Marika Catalani