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Cottontail è un poetico (e drammatico) viaggio verso l’elaborazione del lutto

RadioSapienza e Cinemonitor alla Festa di Roma con Alice nella Città

Premiato col riconoscimento come Miglior Opera Prima BNL BNP Paribas alla diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma, Cottontail è una degli esordi cinematografici più interessanti della kermesse. Scritto e girato dal regista inglese Patrick Dickinson, il film racconta il viaggio che Kenzaburo (Lily Franky) e suo figlio Toshi (Ryo Nishikido) compiono per esaudire l’ultimo desiderio espresso da Akiko (Tae Kimura). Deceduta a causa dell’aggravarsi di una malattia neurologica, la compianta moglie del protagonista ha lasciato una lettera in cui gli chiede di spargere le proprie ceneri in Inghilterra, più precisamente nelle acque del lago Windermere. Da giovane era stata lì in vacanza con la sua famiglia e, conservandone una polaroid, desiderava tornarci a tutti i costi. Cottontail, dunque, è la storia di un viaggio postumo in cui passato e presente si intrecciano indissolubilmente, guidando gli spettatori in un peregrinare tanto fisico quanto mentale. Attraversando due culture, quella nipponica e quella britannica, che in realtà si dimostrano più simili tra loro di quanto ci si possa aspettare inizialmente. Nonostante le ritualità che circondano il mistero della morte siano profondamente differenti ed influenzate dalle rispettive tradizioni religiose.

Il minimalismo dei movimenti di camera di Dickinson segue i personaggi privilegiando l’utilizzo di stretti primi piani che esaltano tutta l’espressività delle ottime performance attoriali. L’interpretazione di Lily Franky si distingue per la pietas che riesce ad imprimere al proprio ruolo, anche solamente attraverso la stasi o il leggero movimento degli occhi. Il volto scavato dai danni del tempo porta in qualche modo i segni di tutta la sofferenza che ha provato durante il calvario vissuto da Akiko. Il personaggio rivive nella memoria del protagonista e, attraverso l’uso di flashback, alcuni momenti della loro relazione vengono rievocati come cartoline che provengono da un passato ormai lontano: dal momento in cui si sono conosciuti in un pub, al dolorosissimo addio che è il motore narrativo della pellicola. La delicata messa scena si sposa alla perfezione con la fotografia curata da Mark Wolf che, con la scelta cromatica, riesce a cogliere perfettamente la temperatura emotiva del lungometraggio.

Il film, inoltre, riesce ad affrontare il delicato tema delle malattie degenerative con estremo tatto, mostrandone gli effetti lancinanti sia sulla diretta interessata, ma soprattutto su chi la circonda e gli vuole bene. Lo spettatore ha modo di vivere visceralmente sulla propria pelle il tragico degenerare delle condizioni di salute di Akiko, comprendendo così il dolore che lacera Kenzaburo durante il viaggio per esaudire l’ultimo desiderio della compagna di una vita. Il climax emozionale della pellicola si raggiunge sul finale in cui, dopo tanta sofferenza, il protagonista riesce, anche solo per un momento, a lasciare andare tutto il dolore che lo consuma dall’interno. Riuscendo, finalmente, a vedere l’alba oltre l’imbrunire della morte. Grazie anche ad un dettaglio che rimanda al titolo del film e alla collana lasciatagli in eredità dalla moglie.

Il regista è riuscito, dunque, con una notevole maestria per un debutto, a raccontare una storia archetipica che riesce a toccare le corde profonde di chi la osserva, facendo confluire in essa anche la propria esperienza biografica. Mostrando, attraverso la poesia di alcune inquadrature e una sceneggiatura che privilegia i silenzi, che l’universalità della sofferenza per la perdita di chi si ama non conosce confini nazionali o culturali.

Gioele Barsotti