Che rapporto abbiamo stabilito con il mondo al di fuori del nostro microcosmo? E cosa rappresentano per noi gli spazi urbani e le opere architettoniche? Sono solo un tramezzo tra noi e l’ambiente esterno o potrebbero anche rivelarsi, con stupore di alcuni, una soluzione poetica?
Il dott. Nicola Mazzeo, scrittore appassionato e studioso della Scienza delle Costruzioni, nel suo saggio “Dalla realtività di Le Corbusier a quella di A. Einstein”, ha voluto provare a rispondere a queste domande con degli esempi concreti che riconducono ad una chiara e precisa idea di dimensione più “umanistica” e meno superficialmente urbanistica.
Lo scrittore passa anzitutto per un focus madre, la luce, da lui ritenuta “generatrice per noi umani”, che sotto un piano strettamente architettonico, viene raccontata come assoluta protagonista nel gioco di ombre, colori e non solo, portata dunque ad arricchire e ad abbellire le “opere di ingenium”.
Ma continua ad idolatrare la sua celebre importanza anche attraverso le acquisizioni apportate dalle neuroscienze, dalla neuro-oculistica e dalla neurolinguistica, considerata in questi campi l’elemento imprescindibile della formazione e della possibile fruizione di ciò che ci circonda, come per l’appunto, opere urbane e architettoniche.
“Si può, quindi, affermare e ritenere che la costruzione della visibilità e, dunque, della più completa e piena vivibilità di ciò che ci circonda, della stessa forma architettonica, “umana” ed urbana, degli oggetti, degli spazi, delle persone, delle cose, delle loro paroles, con le loro relative narrazioni, e fino alla costruzione di storie delle immagini attraverso quelle stesse, sia il risultato di una sintesi, che a partire dalla luce, generi e coinvolga forma e colore/i e che la abbia, anche da questo punto di “vista”, come elemento principale, protagonista fondamentale ed imprescindibile di quella operazione e di quell’operare.”
Sovviene poi una critica a chi ritiene che l’architettura sia solo “partorita” da idee scientifiche e matematiche, rispondendo loro con pungente chiarezza e prendendo in analisi gli enti geometrici bi e tridimensionali lecorbusieriani, quali prodotti dalla geometria descrittiva:
“quelli (…) non siano, in sé, immagini, non siano, in tal senso, fin dalle loro sillabe, fruibili paroles, non producano, quindi, in sé, messaggi spazio-volumetrici semplici o poetici, non “parlino” e, dunque, anche da qui, non costituiscano e non costruiscano una lingua con la quale poter parlare-ricostruire, poter costruire e proiettare nel futuro forme architettoniche, “umane” ed urbane, poesie degne di esser vissute.”
Ed è proprio in questo contesto che lo scrittore pone in evidenza il valore etico della luce, la quale è capace di trasportare poetici messaggi spaziali per mano di artisti e maestri, atto lontano dalle matematiche e le geometrie, che solo attraverso vettori o computer, non sarebbero in grado di attuare.
I palazzi e le costruzioni hanno ormai spazzato via il senso primario e sostituito l’intenzione con il mezzo stesso, avviando così un processo di “cementificazione” e distaccamento “umano”. Nicola Mazzeo però, in questo saggio, riesce sommamente a ricreare un connubio d’antitesi e a raccontare con spiazzante semplicità e grande spirito di analisi, una visione cinicamente abbandonata e poeticamente ritrovata. Un’opera letteraria in grado di trasportarci nella IV e V dimensione, come da lui stesso definita, giustificando la ricerca forsennata del continuum spazio-temporale.