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Immigrazione, sfruttamento, criminalità. La sociologia tra analisi e azione

Oggi, mercoledì 13 marzo 2024, dalle ore 12 alle 14, nell’aula A Vittorio Bachelet di Scienze Politiche, si è tenuto il seminario “Immigrazione, sfruttamento, criminalità. La sociologia tra analisi e azione”, dedicato alle vittime dello sfruttamento criminale del lavoro nel settore agro-industriale e alle forme di analisi e intervento sociologici. L’evento è stato ospitato dalla cattedra di sociologia tenuta dal Preside della Facoltà Tito Marci ed è il frutto della collaborazione tra la Facoltà di Scienze politiche, sociologia e comunicazione e “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, le quali si sono affiancate in vista della XXIX Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si terrà a Roma il 21 marzo.

Il primo a prendere la parola è stato il Preside, il quale ha sottolineato l’attualità nonché l’importanza sociale e politica del tema. Citando il testo “la doppia assenza” di Sayad, ha toccato l’argomento della condizione dell’immigrato emigrato. Non possiamo non considerare l’immigrazione se non come un fatto sociale totale, ci sono fenomeni che vanno considerati nella loro globalità e l’immigrazione è uno di essi. Si può parlare di una sorta di non luogo, senso di spaesamento del quale è incarnato in tal caso da una persona. Questa condizione esistenziale si iscrive in un contesto più ampio, un orizzonte politico e sociale che implica le categorie di immigrazione, sfruttamento e criminalità, le quali disegnano tale orizzonte. Si tratta di una sociologia militante, che non solo interpreta ma si fa azione, in quanto l’analisi non può essere fine a sé stessa ma deve determinare un cambiamento nel mondo.

È proprio su tale argomento che il Preside ha passato la parola a Marco Omizzolo, ricercatore Eurispes, il quale ha affermato che c’è stata un’assenza nel dibattito pubblico rispetto a tali categorie e concetti. La sua esperienza di ricerca è collocata in un territorio specifico, a partire dalla provincia di Latina, con l’obiettivo poi di avvicinarsi al fenomeno che voleva studiare facendo riferimento a una comunità, vivendo in modo immersivo all’interno di una baracca con dei braccianti, spogliandosi totalmente delle sue vesti e immergendosi nel loro mondo per un anno e mezzo. Questo ha portato a creare relazioni orizzontali, aprendo un dialogo costituito da linguaggi, sensazioni, empatia e condivisione del tempo, potendo in tal modo studiare a fondo il rapporto padronale che si instaura tra dipendente e “imprenditore”. Omizzolo inoltre ha spiegato che sono 450.000 gli individui vittime di sfruttamento o di disagio abitativo e l’80 percento di essi sono immigrati.

Ha sottolineato che secondo lui il metodo più efficace consiste nel percorso di ricerca, formazione e azione, adottando un metodo di “conricerca” e non un approccio estrattivista, inteso come mera estrazione di dati a proprio favore. Per transitare dalla ricerca all’azione, infatti, non è sufficiente fare inchiesta giornalistica e aprire dibattiti, bensì è necessario avviare un percorso di emancipazione e liberazione da questa riduzione in schiavitù. Omizzolo si è infatti occupato di organizzare corsi di italiano per tali gruppi di persone, non con lo scopo di insegnare il libro di testo e impartire lezioni esclusivamente nozionistiche, bensì per insegnare la Costituzione Italiana, leggere gli articoli, avere piena consapevolezza della propria condizione, interpretare al meglio i contratti di lavoro e imparare a leggere le buste paga. Ecco che tale periodo di formazione ha avuto come culmine e fine ultimo l’organizzazione dello sciopero del 18 aprile del 2016 in Piazza della Libertà a Latina, durante il quale sono scesi in piazza in 5000 per riconquistare gli spazi pubblici e denunciare i gravi abusi cui erano sottoposti, contribuendo, in tal modo, a scrivere la legge 109 del 2016. Marco Omizzolo ha infine concluso affermando che è questo un percorso collettivo, di reciprocità, molto rischioso e richiedente una grande responsabilità ma necessario ai fini di debellare i soprusi del lavoro.

Ha poi passato la parola a Gaetano Salvo, referente dell’Associazione Libera, il quale ha trattato delle associazioni criminali in Italia. Quest’ultime sfruttano le poche conoscenze linguistiche e di diritti dei ragazzi immigrati, i quali sono i primi ad essere arrestati e incolpati ma gli ultimi ingranaggi di un sistema molto più complesso e stratificato. Ha affermato che l’iniziativa in atto si inserisce nei passi verso la giornata del 21 marzo per ricordare le vittime della mafia con nome e cognome. Da qualche anno Libera ha infatti deciso di equiparare le vittime del caporalato alle vittime innocenti delle mafie, facendo, così, nascere l’idea di inserirli in questa giornata a Roma in un corteo che accompagnerà i familiari, coloro che rimangono e subiscono dall’esterno. Libera scova le storie, ricerca i familiari e vuole accompagnarli in modo che il tutto non si limiti a una giornata fine a sé stessa ma si tramuti in una memoria collettiva. Non bisogna allontanare il tema del caporalato relegandolo alle campagne e alle zone del sud, bisogna piuttosto prendere posizione, parlare di certi temi ormai normalizzati, trattare di razzismo, mafia e populismo, portando alla luce storie occultate. È dunque necessario avere uno sguardo critico e internazionale per comprendere fenomeni così complessi.

La parola è stata poi presa da Paola Bozzao, insegnante del Dipartimento di Scienze Politiche, la quale ha delineato il quadro della normativa situata dietro quanto espresso finora. La condizione del lavoro degli immigrati pone infatti questioni importanti sotto il profilo giuridico, sotto la prospettiva del diritto al lavoro, che, posizionato al centro della nostra Costituzione, tutela il lavoratore dalle relazioni padronali, facendosi carico di intervenire attivamente in tale materia. Il caporalato è un’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro che sfocia in abusi sotto forme anche molto sofisticate. Il caporalato subdolo, che si è insinuato soprattutto mediante le cooperative spurie, in cui le irregolarità si riversano sul dipendente sfruttato che percepisce paghe nettamente inferiori rispetto a quelle che dovrebbe ricevere, è un fenomeno in continua evoluzione perché si adatta alle nuove condizioni sociali ed economiche. Ecco che la prima difficoltà del diritto al lavoro è appunto rincorrere tutti questi mutamenti, affidando un ruolo significativo alla comunicazione pubblica e alle campagne informative affinché facciano in modo che ci sia la consapevolezza del valore del lavoro regolare e trasparente.

A questo punto a parlare è stata Giovanna Gianturco, docente delDipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (CoRis) . La professoressa ha in particolare trattato di ricerca qualitativa, citando il lavoro di Franco Ferrarotti, ex docente della Facoltà di Comunicazione, nel cui universo di pensiero orbitano gli ideali di Marco Omizzoli. Franco Ferrarotti ha infatti ragionato in termini di una sociologia come scienza di autoascolto e di demistificazione, cosa che chiama in causa un atteggiamento che si caratterizza per una postura intellettuale differente, una postura egualitaria rispetto a ciò che veniva considerato oggetto. Dunque prendere e dare, generare un circolo con l’intervistato, ragionare con la ricerca. La sociologia è una scienza ma è caratterizzata dal flusso ininterrotto della ricerca, altrimenti si esaurirebbe in concettualismo e filosofia. Il sociologo mette al centro la ricerca, deve lavorare sul piano dell’empiria, scendere in campo e agire. È dunque, il suo, un diverso modo di fare ricerca, che vede una partecipazione del ricercatore, in termini proprio di “conricerca” appunto, in quanto non è il ricercatore che sfrutta passivamente il soggetto con cui interloquisce bensì condivide un approccio alla ricerca, ascolta attivamente il soggetto e tenta di ridurre quell’asimmetria di base. La ricerca qualitativa diviene dunque rilevante in quanto le tecniche non sono neutre bensì contribuiscono a generare il dato e la realtà, i quali non sono scovabili di per sé, vanno interrogati e analizzati.

Infine il seminario è stato concluso da Giuseppe Ricotta (DISSE), il quale ha trattato della stratificazione sociale. Questa, purtroppo, ha nel tempo implicato i concetti di classificazione e disuguaglianza, elementi degenerati poi in razzismo, schiavismo e rapporti padronali, in cui il potere di un gruppo schiaccia quello dell’altro. È questo un tema che sfocia nella distinzione tra sociabilità metropolitana e sociabilità coloniale. La prima considera tutti gli esseri umani al pari livello per ciò che concerne i diritti, sottolineando che nessuno per nessun motivo può essere ridotto a subumano, invisibilizzato e deumanizzato. La sociabilità coloniale, invece, nata contemporaneamente all’altra, ha una base razziale, di differenziazione degli individui sulla base di caratteristiche legate a questioni socialmente costruite, è questa una sociabilità che porta a fenomeni di inferiorizzazione e degradazione.

Intervista a Gaetano Salvo, referente dell’Associazione Libera:

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