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Jazzy: “Quando capiremo di essere cresciute?”

 “Quando capiremo di essere cresciute?” si domandano Jasmine, detta Jazzy, (Jasmine Bearkiller Shangreaux) e Syriah (Syriah Foohead Means) dopo aver saltato sfrenatamente su un tappeto elastico.

JAZZY

Alla diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma, per la sezione “Progressive cinema”, Morrisa Maltz presenta “Jazzy”, un ritratto universale dell’infanzia e dell’inatteso approdo sull’isola degli adulti, che pare non essere segnata sulla mappa delle protagoniste, come se non esistesse.

Un racconto delicato, sul filo del documentario, ma mai invadente, che si muove tra immagini quotidiane, ricordi, momenti introspettivi, senza mai forzare i toni.

Scritto da Morrisa Maltz, Lainey Bearkiller Shangreaux, Vanara Taing, Andrew Hajek, il film segue la vita di Jazzy, nativa americana Lakota, dai sei ai dodici anni, trascorsa in una cittadina del South Dakota.

Una torta, una festa di compleanno, un palloncino che vola lontano: le prime immagini che si susseguono a singhiozzi, a tratti lenti, risvegliano nello spettatore una lieve nostalgia, abitante fedele della mente di ognuno.

Lo spettatore si culla nel ricordo e intanto Jazzy va a scuola in bus, gioca al parco, disegna, dipinge il viso con i trucchi rubati di nascosto alla madre e, soprattutto, trascorre le giornate con Syriah, la sua migliore amica e vicina di casa, anche lei Lakota, che a volte si sente un po’ trascurata. Ecco le prime tenere gelosie dell’infanzia, ma non c’è nulla che un sincero “Ti voglio bene. Okay?”, “Okay”, non possa risolvere, anche se detto quasi con disattenzione, perché in fondo è ovvio.

Vorrebbero rimanere per sempre bambine, Jazzy e Syriah, eppure inevitabilmente affiorano le prime domande sul futuro. L’innegabile consapevolezza che essere bambini è decisamente meglio che essere adulti, abitanti di un modo distante, è sintomo di una fase di passaggio, la preadolescenza: si sa che prima o poi qualcosa cambierà, ma si spera il più tardi possibile. E nel frattempo si sta con gli amici di sempre e si fa a gara a chi ne ha di più (Jazzy ne ha tre, nove Syriah, allora Jazzy ne dichiara quattro), il resto non conta.

Jazzy ci permette di entrare nel suo mondo, ci coinvolge ed è un privilegio, perché agli adulti del film non è concesso, sono rilegati al fuori campo. È possibile udire solo la voce, che in armonia con Jazzy e Syriah percepiamo come fastidiosa, intenta solo a rimproverare.

Interessante scelta registica di Morrisa Maltz, che così restituisce sullo schermo la distanza di due pianeti lontani, destinati a non conoscersi, né a comprendersi: quello che, per via di metafora, si potrebbe definire di “Peter Pan”, con Jazzy e Syriah a capo dei bambini sperduti, e  quello grigio degli adulti, che agiscono nell’ombra.  L’assenza del volto dei genitori e in generale dei “grandi”, in verità, richiama un espediente tipico di alcuni cartoni animati, come “Mucca e pollo”, o “Tom e Jerry”. La presenza degli adulti è suggerita solo dalle gambe, mentre  il resto del corpo è escluso dall’inquadratura, perfino nelle fotografie: si tratta di un universo riservato esclusivamente ai “più piccoli” e per gli adulti non c’è spazio.

E mentre Jazzy percorre spensierata i sentieri della sua infanzia, tra peluches, caotiche prove dell’orchestra scolastica, interminabili ore di ginnastica, giravolte sulla neve e feste, all’improvviso Syriah non le tiene più la mano.

Le nostre madri hanno litigato” sarà la confessione che Jazzy, dopo giorni di silenzio, strapperà alla sua migliore amica. Per la prima volta, sempre da dietro le quinte, gli adulti interferiscono o, meglio, le loro azioni hanno delle ripercussioni sul mondo delle loro figlie. Syriah si sente in dovere, probabilmente senza nessuna effettiva pressione da parte della madre, di prestare attenzione a quella voce fuori campo. Jazzy ricorda alla sua amica l’incompatibilità tra i due mondi, ma un altro ostacolo si frapporrà tra le due: Syriah deve trasferirsi altrove con la sua famiglia. Una perdita che le bambine non avevano previsto e che le costringerà a crescere. Un addio doloroso, reso dalla corsa in slow motion di Jazzy alternato allo sguardo quasi impassibile di Syriah, consapevole di non poter tornare indietro, che la segue dal finestrino dell’auto. Una mancanza difficile da riempire e da gestire, allora si prova a non pensarci, soprattutto Jazzy.

Dopo la separazione dalla sua migliore amica, vediamo Jasmine compiere le prime mosse di chi sta imparando ad orientarsi nell’impervio mondo degli adulti: prova a cucinare da sola un pasto, probabilmente disgustoso, ma che sa di soddisfazione; esplora al di là del solito parco e scopre un posto nuovo, una sala giochi; si relaziona e confronta con altri bambini e bambine.

Intanto Syriah è sola, non conosce la lingua della nuova città, elemento che amplifica il suo senso di solitudine, ed è obbligata a trascorrere i pomeriggi con i suoi nonni, circondata dai “grandi”, di cui viene mostrato il profilo. Anche attraverso lo sguardo di Jazzy vediamo per la prima volta gli adulti, ma ancora un po’ di sfuggita e non si tratta dei suoi genitori.  Le due bambine compiono timidi passi verso un mondo sconosciuto, che ancora le spaventa, ma allo stesso tempo le incuriosisce.

La lontananza fatta di silenzi e nessuna telefonata sarà interrotta da un triste evento: la morte di un membro della comunità lakota, caro alle famiglie di Jazzy e Syriah.

Durante il viaggio viene mostrato il primo volto adulto, è la zia Tana interpretata dal premio Oscar Lily Gladstone, anche co-produttrice del film. Si tratta dell’immagine sullo schermo del cellulare di Jazzy, che avendola vista solo quando era molto più piccola, decide di cercarla su Instagram. I confini tra i due mondi si fanno ancora più sfumati; tuttavia, non c’è ancora un contatto diretto, è necessaria una mediazione.

Sarà proprio il rito funebre, così significativo per la tradizione lakota, a revocare l’esilio degli adulti, i quali vengono accolti nell’inquadratura, che si trasforma nella foto plastica di una famiglia numerosa in uno scenario ameno. L’esperienza della morte inevitabilmente avvicina e segna la fine definitiva di ogni divisione. È un evento estremo, che non era contemplato nel vitale mondo delle due bambine, neanche nei momenti in cui, con le loro domande, sembravano sfiorare il regno delle ombre e delle voci.

E Jazzy e Syriah? Si guardano, si studiano, accennano un sorriso, ma non si toccano, sembrano quasi estranee. Una sorta di assuefazione alla lontananza che non si dissolve in un abbraccio, ma in uno sguardo dolce, leggermente incredulo. Probabilmente è anche per effetto dell’atmosfera solenne della cerimonia funebre, sono appena entrate a far parte del mondo degli adulti e, infatti, provano ad interagire con loro: per la prima volta, ascoltano con interesse, senza mostrarsi infastidite.

La vera riconciliazione è il mattino dopo, a colazione, le protagoniste sono a loro agio con i grandi, non sembrano più alieni, come dimostra la sfida proposta dal compagno della zia Tana a chi fa più rumore bevendo la zuppa.

Ma l’amicizia, giustamente, resta al primo posto, “gli amici sono troppo importanti” confessa Jazzy alla zia la sera prima. Allora si corre lontano, mano nella mano, magari dopo aver rubato del pane fritto, alla riconquista del proprio spazio. Jazzy e Syriah si sono ritrovate, un sentimento maturo il “ritrovarsi” dopo tanto tempo, che implica un necessario ri-conoscersi. Sarà l’eco tra le montagne a riempire il silenzio nella loro amicizia, tra un “mi sei mancata” gridato e uno sussurrato.

Alla domanda posta in incipit “Quando capiremo di essere cresciute?”, ecco la risposta: non esiste un momento preciso, accade. Tuttavia, non significa dover abbandonare la sincerità e la spensieratezza dell’infanzia e questo Jazzy e Syriah lo sanno molto bene e desiderano difendere la loro visione del mondo. Arriverà una nuova consapevolezza, che integra aspetti di quello che sembrava un regno lontano. Crescere non vuol dire rinunciare alla fanciullezza, come direbbe Pascoli, ma usarla per esplorare una nuova isola, ora comparsa sulla mappa.