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“Berlinguer – la grande ambizione”: tra missione e illusione

Elio Germano E Andrea Segre Berlinguer Photocall Credit Luca Dammicco (6)

Elio Germano E Andrea Segre, Berlinguer Photocall - Credit Luca Dammicco

Berlinguer – La grande ambizione di Andrea Segre apre la diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma, mercoledì 16 ottobre. La pellicola ripercorre cinque anni, dai fatti del Cile del 1973 all’assassinio Moro del 1978, di Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, interpretato da un ancora una volta mimetico Elio Germano.

Berlinguer – La grande ambizione

Sono i terribili anni ’70, quelli del terrorismo, delle Brigate Rosse e delle bombe, come la strage di Piazza della Loggia (1974), e di una “democrazia zuppa”, che deve essere sbloccata.

Sarà Enrico Berlinguer a tentare il cambiamento per l’Italia con la sua “grande ambizione”, espressione gramsciana, che ha come obiettivo il benessere collettivo e “la realizzazione piena di tutte le libertà dell’individuo” nella democrazia.

Invece, la grande ambizione di Andrea Segre è quella di non fare solo un film su Berlinguer (non si tratta di un biopic), ma di raccontare di un popolo, un terzo degli italiani, che aveva sostenuto il PCI; uno spaccato storico inspiegabilmente ancora assente nel cinema italiano.

È un film didattico – fondamentale è stata la consulenza storica di Miguel Gotor – inteso proprio nel suo significato etimologico “atto a istruire” e, quindi, anche a far riflettere sull’Italia degli anni ’70, sì, ma che inevitabilmente dialoga con il presente, a cui è impossibile non pensare durante la visione.

Pochi, infatti, sono i cenni biografici, Berlinguer ha perso la madre a quattordici anni, come racconta alla figlia Maria in una sequenza in spiaggia, ha imparato a giocare a poker nei circoli di Sassari ed è sempre stato “dalla stessa parte”, politica si intende.

Segre, esperto documentarista, come attestano le date e i nomi che accompagnano la narrazione e i filmati d’epoca intessuti nella pellicola, non ha alcuna pretesa estetica, né di reinterpretazione, e va bene così. E allora a commuovere è proprio Berlinguer, l’impegno e la dedizione di chi è completamente immedesimato nella sua causa: realizzare “un nuovo grande ‘compromesso storico’ tra le forze che rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”, la Democrazia cristiana, volontà che sorge dall’analisi del golpe in Cile, che apre il film.

Elio Germano ha studiato per essere Enrico Berlinguer, ha letto gli scritti, ha ascoltato i discorsi, ha incontrato i figli,  è stata una lunga preparazione, che è risultata vincente. Un’interpretazione magistrale: lo sguardo attento, ma mai aggressivo, le pause e i silenzi dell’ascolto, l’accento sardo modulato in un tono pacato, ma sicuro, la postura rigida, di chi sente tutta la responsabilità di un Paese in crisi.

Berlinguer non era un politico dell’apparenza – i capelli spesso spettinati, le giacche larghe sulle spalle – del potere, “non era un leader”, come tiene a sottolineare Elio Germano in conferenza stampa, “ma un segretario che pensava alla collettività” e che viveva il suo lavoro come una missione.

Non era una posizione facile, il segretario del PCI presenta un nuovo comunismo, che afferma con coraggio l’indipendenza da Mosca al XXV Congresso del PCUS (’76), uno dei discorsi meno applauditi dei tre giorni. Quasi inquietanti le scene al Cremlino, in cui si respira la tensione di un processo.

L’ascolto e il dubbio sono un binomio inscindibile della missione Berlinguer e questo emerge chiaramente: sempre disponibile a rispondere alle perplessità dei suoi compagni nelle fabbriche e negli incontri ufficiali; sentiva un senso di responsabilità nei confronti di coloro che rappresentava, avvertiva la necessità di spiegare e spiegarsi e, farlo davanti a chi vuole davvero ascoltare, è estremamente difficile; ed ecco chiarito quel senso di inadeguatezza e i silenzi, resi perfettamente da Elio Germano.

Eppure, Berlinguer riesce nell’impresa, si fa comprendere, il PCI cresce, e nel ’76 “un italiano su tre vota comunista”. Chi se lo sarebbe mai aspettato da un “grigio funzionario”, come lo definisce affettuosamente la moglie Letizia Laurenti, interpretata da Elena Radonicich, che non pensava di aver sposato il futuro segretario del Partito comunista.

È evidente, però, che il progetto di Berlinguer non è frutto di un interesse solipsistico: con lui c’è il comitato centrale di Botteghe Oscure: Nilde Iotti (Fabrizia Sacchi) Luciano Barca (Andrea Pennacchi), Ugo Pecchioli (Paolo Calabresi), Alessandro Natta (Luca Lazzareschi), Pietro Ingrao (Francesco Acquaroli), che condividono i successi (le vittorie elettorali e l’inizio delle trattative con la DC) e le difficoltà (lo strappo con Mosca, gli attentati, il rapimento Moro).

Si potrebbe frettolosamente concludere con il classico “non viene mostrato solo il politico, ma anche l’uomo”: quel “ma” non è corretto.

Berlinguer pubblico e Berlinguer privato coincidono, non c’è alcuna distinzione, solo una totale dedizione alla sua missione, che si consuma anche tra le pareti di casa, con i figli.

Le perplessità di Bianca, Marco e Maria sono fondamentali, perché danno voce ai dubbi degli scettici, a quelle domande, che sembrano banali, ma che danno l’opportunità al padre di continuare a spiegarsi; e così i pranzi, le cene, i pic-nic si trasformano in una tribuna politica: comunismo e proprietà, merito e denaro, uguaglianza e capitalismo (“Il capitalismo si basa sulla competizione, il socialismo sulla collaborazione”). Ovviamente, i figli non possono ignorare, fingere di non vedere il contesto in cui vivono e di riportare a casa anche gli slogan delle manifestazioni  (“Governo Berlinguotti, tasse e poliziotti”) contro il ‘compromesso storico’ e l’allargamento alla Democrazia cristiana, leader Giulio Andreotti.

Dal 1976 si avviano le trattative per il ‘compromesso storico’ a cui lavorano Aldo Moro (DC), che si fa attendere, e Berlinguer, che avvertiva l’urgenza non sua, “ma di tutto il Paese” di far rinascere la democrazia. 16 marzo 1978, rapimento Moro, l’inizio dei lughi 55 giorni, segna la fine delle trattative, un’ambizione che diventa illusione.

Andrea Segre è sincero e, come detto sopra, non reinterpreta, racconta i fatti e, anche di fronte al rapimento di Moro dalle Brigate Rosse e alla complessità della vicenda, mostra il tormento di Enrico Berlinguer, che è combattuto, ma resta fedele ai suoi principi: “non si tratta con i terroristi”, lo dice ai figli, che ancora una volta gli danno la possibilità di spiegarsi; se dovesse succedere a lui, da uomo libero, non vorrebbe mai una collaborazione con le BR.

Una narrazione limpida, lineare, che lascia spazio alla potenza del pensiero e della parola di Berlinguer intrisi di speranza per una nuova Italia democratica, ma non di utopia.

Andare avanti con determinazione, slancio, audacia. Non da utopisti che inseguono chimere
o da schematici che si abbarbicano ai testi; non da estremisti che si lanciano in velleitarie fughe in avanti, ma neppure da opportunisti che si acconciano al presente, naviganti di piccolo cabotaggio che seguono il tracciato delle coste; noi vogliamo affrontare le sconfinate distese del mare aperto
per approdare ad una nuova società a misura dell’uomo

Discorso ai giovani, Milano, giugno 1976.

I ritratti dell’Italia di quegli anni sono abilmente costruiti con materiale d’archivio, che attestano la verità del racconto, senza fronzoli, in modo essenziale. Gli ultimi anni di vita di Berlinguer sono affidati alle didascalie e il funerale alle immagini di repertorio, troppo ardua la sfida di ricostruire, ma probabilmente anche inutile, quel giorno è impresso nella mente collettiva, anche per chi non l’ha vissuto. Un giorno indimenticabile in cui “un popolo intero trattiene il respiro e fissa la bara”, come cantano i Modena City Ramblers.

Nelle scene finali piangono la morte di Berlinguer,  Monica Vitti, Marcello Mastroianni e Federico Fellini, che viene nominato all’inizio del film poco prima dell’attentato, poi scampato, a Sofia. Il cinema, che entra in punta di piedi, con una domanda dell’interprete a Berlinguer “qual è il suo film preferito?”, a cui non c’è riposta, a causa dello schianto, riconosce l’assenza di un personaggio incredibilmente importante per la storia dell’Italia e decide di colmare quel vuoto, grazie ad Andrea Segre.

Scelta perfetta la colonna sonora firmata Iosonouncane, con la voce incredibile di Daniela Pes, che lascia un segno e non si limita a commentare, ma contribuisce a raccontare la tensione, la responsabilità e la speranza di una “grande ambizione” che probabilmente avrebbe potuto cambiare il Paese, ma che è stata destinata solo a rimanere tale.