Che cos’è la postverità, innanzitutto. Anna Maria Lorusso, docente presso l’ “Alma Mater Studiorum”, la definisce come un regime confusivo in cui la realtà dei fatti diventa secondaria. Con metodica ci ha raccontato dell’artefazione con effetto casuale tipica da reality verso cui la comunicazione tramite social media ci sta conducendo. Di fatto, il fenomeno è in via di espansione e serve un certo adattamento al riguardo. Come mai non sei più partita. Più che di una conferenza, si è trattato di un vero e proprio confronto. Un confronto con noi stessi che spesso evitiamo nascondendoci nella giustificata infosfera della realtà che alla velocità di un terabyte si propaga verso una sola direzione: renderci affamati di conoscenze sommarie, causa l’arroganza dovuta a quell’omologazione per farci accettare. Ma da chi poi? E così rimaniamo intrappolati ma sospesi nella nostra bolla emotiva mai condivisa, purchè abbia una connessione Internet. Internet di sicuro nostro fratello se usato come lo spazio in cui tempo e distanze si annullano, ma che troppo spesso diventa affiliata vetrina per farci sentire dei di copertine fake. E nella prosopopea della nostra immagine perfetta, lo scheletro nascosto nell’armadio sono tutto ciò che fa parte di noi ma non rispecchia i canoni socialmente accettati.
E allora che si fa? Lo si nasconde sotto quel tappeto di dubbi, fragilità, paure, difetti. Ma i difetti sono nostri. Sono nostri gli errori, le lacrime. E se ciò che bello non sempre piace, ha la nostra essenza quando ci accettiamo. Non è di certo facile, l’abbiamo ben compreso. Se per far coincidere i nostri piani tra soggetti produttori e ricettori ci dimentichiamo di parlare per davvero, ciò equivale a camminare nel buio senza sosta ma anche senza torcia. Quel buio che vestiamo di slogan, notizie che suonano bene per l’opinione pubblica e che ci rende delle automazioni cognitive, dei riflessi sbiaditi delle menzogne che questa società continuare a dirci per fagocitarci in un sistema egoico e prepotente. Una volta fuori cosa c’è, Truman? E’ ciò che spesso ci siamo chiesti nel vedere quel film del lontano 1998. Sono trascorsi oltre venti anni quando l’incredibile regia di Peter Weir fu ritagliata su Jim Carrey. Quello che d’istinto, oggi, si può dire è che c’è semplicemente una candela, come la dottrina orientale ci insegna, da accendere nel nostro buio. Un buio che va compreso e adattato, non rinnegato o temuto. Così come dev’essere accarezzata la paura, che ci rende così fallibili e dolcemente umani! Quando ai nostri figli diremo di non aver paura del buio, diamo loro più di una motivazione, non lasciamo che si accontentino sin da subito di una modalità predefinita. Diciamoli che possono avere paura ma anche che possono superarla e che l’assenza di luce non fa cosi paura. Facciamo loro accendere la loro singola candela, in quel buio. Solo così non rimarranno incastrati in un mondo faziosamente perfetto in cui tutto sembra essere allineato a soddisfare i loro bisogni senza riuscirci. E se ciò comunque dovesse accadere, avremo dato un mezzo, un’altra strada. Ogni nostro Truman interiore deve varcare quella porta sulla realtà unica per noi. E se casomai lo rivedessimo, “buon pomeriggio, buonasera e buonanotte”.