La Sapienza accoglie Francesco Remotti, direttore del Dipartimento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali dell’Università degli Studi di Torino, per una conferenza dal titolo “La via antropologica al condividuo” nella quale si analizza il concetto di persona dal punto di vista antropologico.
Numerosi sociologi, filosofi, etnologi e antropologi vengono citati da Remotti nel corso dell’evento. Il primo è Émile Durkheim, che ne “Le forme elementari della vita religiosa” del 1912 analizza l’etnologia dell’origine australiana. Egli propone la distinzione tra l’individuo, che coincide con l’organismo biologico, e la persona, che invece è un fatto sociale. C’è un ribaltamento rispetto alla concezione tradizionale, che assegnava l’individuo all’anima anziché all’organismo: qui Durkheim non si occupa dell’individuo, bensì della persona.
Alfred Radcliffe-Brown in un articolo del 1940 afferma che “ogni essere umano che vive in una società è un individuo e insieme una persona”. Riprendendo Durkheim, dice che l’individuo è un organismo biologico e psicologico, mentre la persona è un complesso di rapporti sociali. Secondo Radcliffe-Brown, gli antropologi e i sociologi hanno a che fare con una realtà non biologica ma sociale, alla quale corrisponde la persona.
Grace Harris, ispirandosi a Radcliffe-Brown, distingue l’individuo (piano biologico), il sé (piano psicologico) e la persona (piano sociologico).
Remotti non è d’accordo con l’articolo scritto nel 1938 da Marcell Mauss, il quale fa convergere persona e individuo (a differenza del suo maestro Durkheim) e afferma che il concetto di persona nelle società primitive non ha consistenza perché è sostituito da quello di personaggio. Col diritto romano e il cristianesimo si fondono i concetti di persona e individuo: questa secondo Mauss è un’acquisizione della civiltà a cui non bisogna rinunciare.
Nel 1927 Lucien Lévy-Bruhl scrive “L’anima primitiva”, in cui con lucidità si rende conto che nelle società primitive c’è un altro modo di intendere l’individuo. L’anima è concepita come un individuo, che per Lévy-Bruhl vuol dire indivisibile. Il cristianesimo si appropria di questo concetto di individuo, lo applica all’anima e introduce l’idea che gli esseri umani abbiano un’anima individuale e siano una imago dei. Secondo il filosofo francese “l’individuo così come noi lo concepiamo è uno e insieme molteplice; esso è dunque un luogo di partecipazione”. Secondo le società primitive “La partecipazione si rivela nella struttura stessa dell’essere umano” e vuol dire condivisione, cioè che le cose sono connesse tra di loro. Infatti, ricorda Lévy-Bruhl, nelle società primitive prevale l’idea di sopravvivenza a discapito di quella di immortalità.
Maurice Leenhardt nel 1947 pubblica “Do kamo. La persona e il mito nel mondo melanesiano”. Egli utilizza degli schemi per spiegare come i Kanak concepiscano la persona secondo una concezione relazionale: dal centro si dibattono dei segmenti che rappresentano le relazioni. Il centro è vuoto: per i Kanak non c’è un nucleo, non c’è una sostanza, ma la persona è un fascio di relazioni, e se si tolgono esse non resta nulla. Leenhardt possiede il concetto di individuo perché è stato un missionario e lo ha appreso dal cristianesimo. Per questo motivo contrasta il concetto di individuo da parte dei commercianti colonialisti, inteso da questi ultimi in termini di competizione e successo economico piuttosto che come corpo.
Nel frattempo, poiché il concetto di individuo inizia a non funzionare, grazie all’intuizione di McKim Marriott prende piede il concetto di dividuo, che sta a significare che la persona è scomponibile: infatti se si toglie una relazione (per esempio la morte di una persona cara) la persona ne risente. C’è un ribaltamento: fino a quell’epoca i primitivi mancavano del concetto di individuo, mentre con lo sviluppo dell’antropologia della persona gli antropologi si rendono conto che gran parte della società ha una concezione dividuale della persona e allora l’individuo diventa una stranezza antropologica. Si diffonde la concezione dividuale della persona.
Nel libro “Il genere del dono”, Marilyn Strathern scrive che “le persone in Melanesia sono concepite sia in termini dividuali che individuali. Esse contengono al loro interno una società generalizzata. In effetti, sono costruite come i luoghi plurali e compositi dove convergono le relazioni che le producono. La singola persona può quindi essere immaginata come un microcosmo sociale”. Remotti trova insensato dire, secondo la concezione melanesiana, che la persona è sia dividuo che individuo: o è una o è l’altra cosa. Secondo il professore, Strathern prende questa strada perché avverte che il concetto di dividuo è limitativo, perché vuol dire scomponibile e scomposto: manca la composizione.
In un testo del 2009 Elena Gagliasso inventa il concetto di condividuo, scrivendo che “occorrerebbe sostituire a individuo per esempio condividuo, ovvero un insieme composito di forme di vita diverse, che condividendo spazio e funzioni vitali all’interno di un corpo, permettono a questo di svilupparsi correttamente come embrione, di vivere – nel senso di convivere – e alle diverse specie mutualistiche inscatolate di coevolvere globalmente”. La cosa che ha entusiasmato il professore è stata la convergenza tra analisi nell’antropologia della persona e analisi nella biologia, che mette in discussione non solo il concetto di individuo, ma anche quello di organismo.
Remotti conclude con una critica rivolta agli antropologi: di solito loro non sviluppano una teoria propria della persona, ma si mettono alle spalle dei loro interlocutori e indigeni. Tuttavia non bisogna accontentarsi di stare nelle rappresentazioni degli altri: occorre formulare qualche teoria che possa dialogare con biologi, psicologi o filosofi che si occupano di persona. Dunque il concetto di condividuo è un passo importante da compiere non solo per descrivere le rappresentazioni della persona, ma anche per collaborare coi colleghi al fine di formulare una teoria condivisibile della persona.