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La violenza sessuale parte dalla comunicazione?

La questione dialettica all’interno delle relazioni sociali diventa sempre più determinante, e una sbagliata e imprecisa, comunicazione può tramutarsi in qualcosa di spiacevole. Di questo ne è venuta a dibattere la professoressa Claudia Bianchi, docente presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute S. Raffaele, dove detiene la cattedra di “Pragmatica del linguaggio”, “Comunicazione e cognizione” e “Gender Studies”. La lezione seminariale si è svolta nella giornata di lunedì 8 maggio, presso la facoltà di filosofia dell’università La Sapienza, nella splendida cornice di Villa Mirafiori.

Questo incontro è inserito all’interno del seminario permanente di filosofia, studi di genere, pratiche e delle differenze; dedicato al tema Filosofie del linguaggio e alle differenze di genere, tra lingue e discorso. Al centro del dibattito, la questione di come il linguaggio può essere usato per fare del male. La professoressa sottolinea come “linguaggio può essere uno dei luoghi cruciali di esercizio del potere e a volte esercizio violento”, in quanto all’interno di essi si sviluppano atti linguistici, in questi casi quelli che hanno luogo nella sfera intima sessuale. Dove vi è una connessione con il linguaggio d’odio, perché molti discorsi sulla sfera sessuale sono basati su due atti linguistici: di consenso e di rifiuto. Cruciali nella definizione di violenza.
Il dibattito nasce dall’incrociarsi di due concezioni, ossia la filosofia del linguaggio da una parte, e la filosofia femminista dell’altra, che vanno a criticare queste due astrazioni. Per la prima, il linguaggio consiste nella descrizione della realtà, messa in dubbio dalla filosofia del linguaggio ordinario, dove si descrive di più oltre a ciò che vediamo. Mentre nella filosofia femminista, c’è un’idea che il linguaggio sia uno strumento dato a tutti nello stesso modo e quindi permettente di fare cose in modo uguale con un parlante neutro. Questi due diversi approcci convergono per andare a creare un nuovo modo di pensare al linguaggio, come un qualcosa che serve a modificare la realtà sociale. Uno strumento non dato a tutti allo stesso modo, ma a chi ha più capacità rispetto ad un altro. Infatti il linguaggio è visto come uno strumento di esercizio del potere per opprimere, discriminare ma anche emanciparsi.

Ma nel cuore del dibattito si analizza cosa sia la violenza sessuale. Preso ad esempio gli Stati Uniti, ove esistono vari modelli per definirla. Viene analizzato il “modello del No” che vede reo di violenza un individuo che imponga atti sessuali a un’altra persona, nonostante il suo rifiuto espresso verbalmente o altro. Questo però ne consegue un aspetto negativo, ovvero il silenzio. Una mancanza di rifiuto che di per sé diventa consenso. Questo causa un punto pericoloso, perché non tiene conto alle reazioni di paralisi che impediscono di reagire, e quindi quello che ne scaturisce è qualcosa sicuramente di non consenziente. Sul finire degli anni novanta entra in vigore il “modello del sì”, ove viene riconosciuto reo di violenza un individuo che imponga atti sessuali a un altro individuo senza il suo consenso affermativo, quindi si passa da un modello che si focalizza sul rifiuto, a un modello che si focalizza sul consenso. Sorgono però due problemi, primo è che comunque il “modello del sì” continua a ritenere che si possa inferire il consenso anche da comportamenti non verbali, e qui emergono dei problemi di genere, in quanto è stato certificato che gli uomini sovrastano il comportamento non verbale delle donne, essendo più inclini a intendere male il consumo di alcol di una donna come se veicolasse intenzioni sessuale, in quanto l’uomo ne deduce in alcuni comportamenti, mentre la donna al contrario, vede il flirt come un lavoro o uno sviluppo di interazione. Il secondo problema è che avere certe attività intime, in genere, viene ritenuto indizio per altre attività, che magari si vogliono evitare per altri rischi, come gravidanze indesiderate oppure di carattere sanitario, come malattie sessualmente trasmissibili.

Vengono presi in esempio i College Americani, dove attraverso statistiche, emerge come una ragazza su cinque subisca una violenza sessuale, quattro volte in più, proprio all’interno di college, ed il 90% di loro conosceva l’aggressione. Nota ancor più negativa è che solamente il 5% delle violenze vengono denunciate, e per di più  il 90% degli aggressori era sotto effetto di alcol. A questo punto esordisce un’altra domanda, ma la violenza sessuale è frutto di una cattiva comunicazione? Perché spesso si assegna alle ragazze, rispetto ai ragazzi, la responsabilità di evitare una cosa, vedi una violenza, come se dipendesse sempre da loro, mentre ad altri non venisse mai riconosciuta la responsabilità di questi atti sbagliati. In molti hanno cercato risposta, riassumendo tutto in un insistere semplicemente nel dire di no. Secco e deciso. Invece molto spesso, per paura anche di una demolizione dell’autostima altrui, si tende ad usare strategie indirette per rifiutare, forse però in questo caso sbagliate. In questo ambito si insinua l’università di Yale, che si pone l’interrogativo di quando si definisca il consenso? Questo attraverso un vero e proprio codice dove si definisce il consenso affermativo, senza assenza di rifiuto. Dove il consenso a una certa attività non ne consegue un altro. Un consenso del passato non significa anche nel futuro, che deve essere mantenuto durante l’incontro e una persona ha tutto il diritto di revocarlo, anche nel bel mezzo dell’atto. Questo consenso non deve essere ottenuto mediante minacce, oppure non bisogna facilitarsi il gioco sfruttando persone sotto effetto di droga o alcool, e per ultimo non deve essere ottenuto da chi ha una supervisione sull’altro.

Riassumendo,  la comunicazione diretta sembrerebbe il miglior modo per assicurarsi il consenso.

Sul finale è emersa la questione dell’ingiustizia discorsiva, un fenomeno per il quale l’appartenenza a un certo gruppo sociale rende meno il nostro potere decisionale. Fare qualcosa di più debole rispetto a quello che vogliamo, come ad esempio le manifestazioni che vengono viste come lamenti. 
Un esempio è la riduzione al silenzio, le parole di chi appartiene a un gruppo discriminato vengono considerate meno, o come la professoressa stessa sottolinea “non può fare nulla con le sue parole”. Ulteriore esempio cade sul rifiuto. Questo può non venire riconosciuto come tale o non viene riconosciuto in modo sincero. Oppure qualora venisse riconosciuto, l’individuo non sembrerebbe avere l’autorità per compiere un certo atto linguistico, poiché questo appartenente al padre o al fratello. Spostandosi invece più sulla filosofia del linguaggio è stata analizzata la coppia “rifiuto/consenso”, essi a che atti corrispondono? Poiché sono una risposta ad atti linguistici, spesso in una richiesta di permesso segue un modello di richiesta. Questa possiede una certa simmetria, perché c’è chi chiede e che consente, anche in maniera passiva. All’interno poi naviga un aspetto culturale, dove tendenzialmente sono gli uomini a chiedere e le donne invece sono quelle che consentono. 
Però la richiesta viene etichettata come una cosa non troppo ottimale, in quanto vista come un tentativo di fare qualcosa a qualcuno, un orientare una persona al nostro beneficio. Per questo viene preferita la formula dell’invito, un atto più ospitale, dove a beneficiare teoricamente sono entrambi.

Un importante dibattito che sarebbe potuto prolungarsi ancora, in quanto argomento molto aperto e trovare una soluzione sembra sempre più difficile. Ma, come la stessa professoressa ha sottolineato nell’intervista, già adesso con questo nuovo femminismo che ragazzi e ragazze stanno cavalcando, una luce in fondo a questo tunnel sembrerebbe esserci, nella speranza che non bisogni più intavolare discorsi su violenze, ma magari insegnare a capire che un no, un rifiuto, non vanifichi la dignità di una persona, sentendosi in dovere di abusarne