L’infinito dibattito sulla “legittimità” del velo islamico nei Paesi europei sta vedendo in questi giorni un deciso picco verso il divieto. A spostare l’ago della bilancia è stata la notizia di ieri che ha visto una Corte Europea esprimersi con una sentenza a favore delle due aziende che, rispettivamente in Francia e in Belgio, hanno licenziato due donne per non aver rispettato il regolamento interno che vietava l’uso del velo sul posto di lavoro. Detto così, è facile scindere tra giusto e sbagliato ma, come in ogni cosa, bisogna andare oltre ed esaminare la vicenda più da vicino.
Il primo caso riguarda Samira Achbita (Belgio), receptionist di fede musulmana della GS4, che all’epoca dell’assunzione accettò la regola non scritta interna che vietava di indossare sul luogo di lavoro segni visibili del proprio credo religioso, filosofico e politico. Nel 2006, dopo aver comunicato al proprio datore di lavoro l’intenzione di indossare il velo in orario di ufficio, l’azienda formalizzò la regola che ne esprimeva il divieto. Nonostante ciò, Achibita decise di continuare ad indossare il velo, causando il suo licenziamento.
Il secondo caso è francese e riguarda Asma Bougnaoui, un ingegnere progettista della Micropole di fede islamica, avvisata sin dall’assunzione dall’azienda del fatto che il velo avrebbe potuto causare problemi con alcuni clienti. Dopo una lamentela, l’azienda chiarì espressamente il suo principio di neutralità chiedendo a Bougnaoui di non indossare più il velo. La risposta negativa della donna portò dunque al licenziamento.
Perché la Corte Europea ha dato ragione a GS4 e Micropole? In realtà la decisione non è stata così “schierata” come sembra: nella sentenza si legge infatti una netta distinzione tra ciò che è definibile discriminazione diretta e ciò che è invece la discriminazione indiretta. In riferimento al primo caso, la Corte ha reputato che “una regola interna che proibisca di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso non costituisce diretta discriminazione”. Cosa significa? Vuol dire che la regolamentazione interna all’ azienda è universalmente applicabile ed effettivamente applicata nei confronti di tutti i dipendenti, a prescindere dalle particolarità soggettive di ognuno. Di conseguenza, si tratterebbe di discriminazione indiretta qualora l’obbligo apparentemente neutro previsto dall’ azienda comportasse svantaggi particolari nei confronti di una determinata religione o di un determinato credo. Dal momento in cui il datore di lavoro è in grado di dimostrare che un provvedimento apparentemente discriminatorio sia in realtà coerente con il principio aziendale della neutralità (adottando ovviamente mezzi consoni ed appropriati) il divieto non costituisce reato o limitazione delle libertà personali.
Cosa farsene allora della direttiva Ue che afferma il principio di parità di trattamento e l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata, tra le altre cose, sulla religione? La Corte ha isolato il termine religione, di cui effettivamente manca una definizione nella direttiva, facendo riferimento alla convenzione europea dei diritti dell’uomo e alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, riaffermate nella carta dei diritti fondamentali dell’Unione: per religione si intende “avere convinzioni religiose” e la direttiva promulga la libertà di manifestarle apertamente. Nel momento in cui le aziende in questione hanno espresso nei confronti dei propri dipendenti una norma generale e indiscriminata che prevedeva neutralità nell’ abbigliamento non hanno, secondo la Corte, assunto un comportamento anomalo o ingiustamente discriminatorio nei confronti delle dipendenti in questione.
Chi ha ragione e chi ha torto? Difficile stabilirlo. Nonostante la sentenza sia molto chiara e puntualmente attinente alle norme dell’Unione Europea risulta complesso ritenere il velo un semplice accessorio d’abbigliamento considerando il significato che riveste nella religione musulmana. Intanto il Direttore della Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale, John Dalhuisen, ha dichiarato: “La Corte ha sostenuto che i datori di lavoro non sono liberi di assecondare i pregiudizi dei loro clienti, ma affermando che le politiche aziendali possono vietare i simboli religiosi per assicurare ‘neutralità’, ha fatto rientrare dalla porta di servizio gli stessi pregiudizi. È ora che i governi nazionali rafforzino e proteggano i diritti dei loro cittadini”, sottoponendo, insieme a la Rete Europea contro i Razzismo, le proprie osservazioni alla Corte secondo cui le restrizioni delle due aziende imposte alle dipendenti siano mera discriminazione per religione o credo.
Il Legislatore Europeo avrà sicuramente tanto a cui pensare al riguardo, da parte nostra, in quanto cittadini europei, non possiamo fare altro che ragionare sulle nuove sfide che ci attendono in termini di globalizzazione ed integrazione culturale, ambiti in cui, evidentemente, manca ancora quel “progresso” tanto acclamato.
Sara Corrieri