Viviamo su un pianeta in grande sofferenza, dove 1 persona su 78 è costretta a lasciare la propria abitazione. Alla fine del 2021, il mondo contava 89,3 milioni di migranti forzati, in aumento dell’8% rispetto all’anno precedente, arrivati a superare la soglia dei 100 milioni dopo l’invasione russa dell’Ucraina dello scorso 24 febbraio.
A questi si aggiungono i migranti forzati per cause climatiche, il cui numero resta per lo più non dichiarato, visto che in Italia e in Europa ai migranti climatici in quanto tali non viene riconosciuto lo status di rifugiato. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc), negli ultimi 15 anni i disastri naturali sono stati la causa principale della maggior parte degli sfollamenti interni. Solo nel 2021 sono stati registrati 23,7 milioni di nuovi sfollati per cause ambientali, contro i 14,3 milioni prodotti dai conflitti. Tra i Paesi più colpiti: Cina, Filippine e India. Secondo la Banca mondiale, entro il 2050 i migranti ambientali potrebbero arrivare a 220 milioni di persone.
Gli sfollati del clima sono invisibili per la legge, ma già presenti anche nei Paesi ad alto reddito, come quelli europei. Va però sottolineato che l’impatto del cambiamento climatico non è uguale per tutti. Una maggiore vulnerabilità può essere ricondotta sostanzialmente a tre fattori principali: geografico, ossia vivere in aree più fragili e maggiormente esposte agli effetti del riscaldamento globale; socio-economico, legati all’assenza di risorse e servizi, all’incapacità di adattarsi o prevenire gli impatti della crisi climatica-ambientale; fisiologico, connesso alle specificità di singole categorie (bambini, donne, anziani). In sintesi, a essere colpiti sono soprattutto i Paesi poveri e i poveri che vivono nei Paesi ricchi.
Se si guarda ai flussi migratori verso l’Italia, le nazionalità dichiarate dai migranti sono riconducibili ai Paesi che maggiormente stanno soffrendo la pressione del cambiamento climatico. Nel 2021 tra i primi Paesi di origine troviamo: Tunisia, Egitto, Bangladesh, Afghanistan, Siria, Costa d’Avorio, Eritrea, Guinea, Pakistan e Iran. Parliamo di Paesi dipendenti dal grano russo e ucraino e aree del mondo allo stremo per la siccità intervallata da alluvioni, per l’innalzamento delle temperature medie e per le conseguenti carestie che stanno affamando decine di milioni di persone.
A far crescere il numero degli sfollati, infatti, ci sono i conflitti disseminati in tutto il mondo, che non provocano solo morti, sfollati e distruzione di intere città, ma generano un forte impatto ecologico che peserà anche sulle future generazioni. Ne è un esempio il conflitto in Ucraina, che ha innescato anche un’altra guerra, molto subdola, quella del grano e dei cereali, che a sua volta rischia di peggiorare la già precaria sicurezza alimentare in diversi Paesi del mondo e il cui effetto sui prezzi delle materie prime alimentari potrebbe farsi sentire a lungo termine (Russia e Ucraina, secondo i dati della Fao, producono il 12% di tutte le calorie alimentari importate ed esportate a livello globale, controllando il 29% dell’export totale di grano). La dipendenza dal grano proveniente dai due Paesi belligeranti, unitamente alla crisi climatica in corso – in particolare per quanto riguarda il Medio Oriente, l’Africa settentrionale e subsahariana – minaccia quindi di aumentare la spinta migratoria dalla sponda Sud del Mediterraneo.
Ad accogliere l’esodo di milioni di sfollati sono, principalmente, Paesi con risorse precarie e a loro volta fragili anche da un punto di vista ambientale. Nel 2021, l’83% dei rifugiati è stato accolto in Paesi a reddito basso o medio. Eppure, negli Stati più ricchi e maggiormente responsabili della crisi climatica continua a diffondersi un allarmismo sull’arrivo in massa di profughi climatici. Sempre più denaro pubblico viene speso per militarizzare i confini piuttosto che per ridurre le cause del disastro climatico, alimentando il cosiddetto global climate wall, un muro climatico globale, fatto di ingenti investimenti economici per barriere, droni, tecnologie di sorveglianza, a detrimento degli aiuti necessari ai Paesi più vulnerabili per mitigare e adattarsi al cambiamento climatico.
Inoltre, l’invasione russa in Ucraina e la conseguente crisi dei prezzi del gas (esplosa già nella seconda metà del 2021) hanno riacceso in Europa i riflettori sui rischi legati alla dipendenza energetica dall’estero (la Russia è il primo esportatore mondiale di gas naturale e il secondo esportatore di petrolio) e spinto diversi Paesi a riaprire le centrali a carbone o a pensare di autorizzare nuove trivellazioni per estrarre combustibili fossili o ancora a considerare l’energia nucleare come la soluzione ai problemi energetici. Tutte scelte che ci allontanano dalla riduzione delle emissioni di CO2, prima causa del cambiamento climatico.
Commenta il presidente di IDOS, Luca Di Sciullo: “Ingiustizia climatica e ingiustizia sociale si saldano e la migrazione diventa l’unica strategia di adattamento per chi non ha altra alternativa che fuggire dalla povertà in tutte le sue forme. Non basta evitare i conflitti per risolvere la questione delle migrazioni forzate; è anche necessario imparare a convivere in maniera più sostenibile con il nostro pianeta, rovesciando l’attuale modello di sviluppo e ragionando concretamente sul diritto a migrare”.
(Intervista a cura di Andrea Pranovi)