Tavolo tutto al femminile per la sesta iniziativa della Settimana della Sociologia. Il dibattito su media e la violenza di genere, moderato dalla professoressa Franca Faccioli, parte dal 1976, anno un cui viene realizzato Processo per stupro. Girato da un gruppo di sei femministe, è il primo documentario su un processo per stupro mandato in onda dalla Rai.
La professoressa Milly Buonanno, co-responsabile scientifico dell’unità di ricerca GEMMA (GEnder and Media MAtters), si interessa con i suoi colleghi di processi di cambiamento attivati dalla comunicazione e il documentario ne rappresenta un forte esempio. L’impatto è infatti molto profondo sugli spettatori che per la prima volta vedono dalle loro case come la donna viene trattata in un processo di giustizia. Con Processo per stupro avviene un’alleanza anomala tra il movimento femminista e i media (ai quali il movimento era sempre stato avverso). Il ruolo della televisione risulta infatti fondamentale per il cambiamento: come ci spiega la Buonanno, la causa femminista ha così avuto la possibilità di raggiungere un pubblico di massa e quindi di diffondere consapevolezza. “Processo per stupro ha fatto del pubblico testimoni del processo” dice la professoressa. “Vi sono media events formativi che suggeriscono alla società di pensare in maniera diversa”.
L’importanza di tornare al passato, è un punto fondamentale che lega tutte le relatrici. Negli anni 70 viene definita un nuovo tipo di violenza fino ad allora ignorata, la violenza simbolica. Si tratta di una violenza esercitata non con la forza fisica, ma attraverso l’imposizione di una determinata visione nonché di ruoli sociali. Il documentario ne riporta vari casi, uno di questi è quello che ritrae la madre dell’imputato fuori dal tribunale. La donna legittima il figlio attraverso un assoluta e cieca accettazione dello spirito del tempo.
Anche la professoressa Giuseppina Bonerba ha riflettuto sul concetto di violenza simbolica. Secondo la Bonerba il problema della violenza di genere va collocato in un sistema molto più ampio, il sistema di un paese che ha “una cultura che non è una cultura del diritto”. E’ dunque necessario rivisitare tutto il nostro sistema culturale, in cui il modo di rivolgersi alla donna è dall’alto in basso ed è consuetudine che la colpa sia sempre la sua. La Bonerba è passata poi all’analisi della rappresentazione del femminicidio in tv, prendendo come esempio il programma rai Amore criminale. Già dal titolo capiamo che vengono messi in campo i sentimenti: tutto gira intorno alla storia d’amore tra i due, mentre i rapporti con le istituzioni (ad esempio riportare le numerose denunce esposte dalla vittima) rimangono oscurati. Il focus è quindi sulla storia sentimentale andata male, non su quale ruolo può giocare lo stato e viene messo molto poco in evidenza che il problema stia nel maltrattante, non nella donna vittima.
Ha contribuito al dibattito anche la dottoressa Pamela Falconieri, a capo della squadra mobile sezione contrasto ai reati della violenza di genere. “Noi lavoriamo ogni giorno guardando il lato oscuro delle persone” così la Falconieri descrive ciò di cui si occupa. Gli agenti devono affrontare un momento molto delicato per la vittima ovvero il momento in cui bisogna parlare con le istituzioni. Compito degli investigatori è quello di cercare di traumatizzare il meno possibile, perché comunque la vittima quando racconta rivive un trauma. Una delle paure di chi denuncia è soprattutto quella di non essere creduti. Riportando il caso di una ragazza abusata dal patrigno, la Falconieri spiega come per la madre della vittima sia stato difficile credere alle violenze, questo perché anche il meccanismo mentale delle donne è vittima della cultura che abbiamo. Ritornando ai media, la Falconieri denuncia il modo morboso con cui i giornali raccontano degli abusi: “E’ importante scegliere le parole e rispettare i silenzi”, dice la dottoressa, “ se non capiamo che l’altro va rispettato non andiamo da nessuna parte .
Intervista a Milly Buonanno