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Megalopolis: la New Rome decadente di Francis Ford Coppola alla Festa del Cinema di Roma

Nathalie Emmanuel as Julia Cicero and Adam Driver as Cesar Catilina in Megalopolis. Photo Credit: Courtesy of Lionsgate

Nathalie Emmanuel as Julia Cicero and Adam Driver as Cesar Catilina in Megalopolis. Photo Credit: Courtesy of Lionsgate

Film di pre-apertura della 19esima edizione della Festa del Cinema di Roma e di Alice nella Città, la “New Rome” di Megalopolis di Francis Ford Coppola sbarca nell’attuale Roma dopo la presentazione a Cannes. Un progetto che il regista americano di Apocalypse Now, Il Padrino, La Conversazione e molto altro, ha in mente da quasi 40 anni, e che ha avuto un percorso di sviluppo quanto mai travagliato.

Megalopolis: New Rome, III Millennio, XXI Secolo

Tutti gli artisti possono fermare il tempo. I pittori cristallizzano un attimo per l’eternità attraverso un pennello, i poeti attraverso la parola e il cinema attraverso il montaggio. Cesar Catilina (Adam Driver)  è un artista, uno scienziato, un architetto, un sognatore. E può fermare il tempo. Carismatico e autodistruttivo, grazie alla scoperta del “megalon” propone un’alternativa al mondo moderno, una possibilità che sembra invisibile al sindaco di New Rome Frank Cicero (Giancarlo Esposito), più interessato al mantenimento delle cose così come sono piuttosto che al loro cambiamento.

Il vero centro del film, più che i suoi personaggi, è però la sua immaginifica ambientazione, contemporaneamente antica, moderna e futuristica. C’è la New York del XXI secolo (del secondo millennio), quella che Coppola assieme alla generazione dei registi della New Hollywood (in particolare Scorsese) ha tanto raccontato, c’è la città/moloch colossale di Metropolis di Fritz Lang, con le sue intuizioni fantascientifiche ed il suo gigantismo, e c’è l’anacronistico e citazionistico passato romano, dai nomi dei personaggi che riprendono protagonisti della storia dell’antica Roma riproponendo una versione aggiornata e riletta della congiura di Catilina, fino anche ai loro abbigliamenti, che alternano motivi antichi a stili contemporanei. Un anacronismo che non dovrebbe stupire più di tanto in un periodo storico dove sempre di più forze tradizionaliste e conservatrici rievocano passati più o meno lontani per giustificare e unificare masse sempre più atomizzate e spersonalizzate, convergendo in un pot-pourri di influenze estetiche, tematiche e narrative che sfocia in uno strabordante kitsch senza significato, un kitsch consapevole e consapevolmente vuoto.

Megalopolis è la nuova Babilonia, la grande prostituta, abitata da personaggi lussuriosi e costantemente dediti ai complotti, in un cast d’eccezione che vede Aubrey Plaza, Shia LaBeauf, Jon Voight e Dustin Hoffman a contendersi posizioni di potere con ogni mezzo possibile. I filtri spesso eccessivi, la recitazione sopra le righe, il montaggio sincopato e l’affollarsi continuo di figure ambigue restituiscono il ritratto di una città sull’orlo del collasso in cui tutto diventa intrattenimento. La politica, il potere, il giornalismo, la religione, tutto si può comprare ed è offerto al miglior offerente, anche la verginità di una giovane “vestale” sacra a Dio rappresentata come una pop star americana (e non per altro interpretata da Grace VanderWaal, vincitrice dell’undicesima edizione del programma televisivo America’s Got Talent nel 2016 e protagonista del film Disney Stargirl).

In un continuo collage citazionistico, Megalopolis è un colossal che cerca di mettere assieme mille situazioni in un pastiche di stili che ad un primo sguardo può sembrare quasi fastidioso. Split screen in tre parti alla Napoleon di Abel Gance, sovrapposizioni confusionarie, luccichii esagerati, fotografia che in alcuni momenti ricorda dei filtri di instagram, è impressionante come Megalopolis riesca a creare stupore per una visione del cinema così imponente ed originale a livello di sguardo contemporaneamente a virate trash, esagerate ed eccessive. Un film che comprensibilmente ha diviso tra chi acclama la visione di Coppola e chi invece ne denuncia l’esagerazione sia estetica che narrativa, piena di citazioni da Shakespeare a Marco Aurelio e lunghi monologhi che a volte sembrano prendersi troppo sul serio.

Megalopolis, tuttavia, ha senso proprio in questa contraddizione, in questa opulenza di situazioni, di luci e di personaggi. Capitale decadente del mondo contemporaneo, Babilonia in via di disfacimento, nella crisi Cesar Catilina offre una possibilità, quella di un nuovo mondo possibile. E Coppola ha bene in mente a chi stia parlando e di cosa stia parlando. Nel mondo di oggi non c’è un Cesar Catilina con una soluzione immaginifica, ma i problemi che affliggono la città di New Rome sono gli stessi che affliggono le metropoli (e la vita dello spirito) postmoderne.

Se la società contemporanea è figlia di quel “There is no alternative” di Margaret Thatcher, la sua fine drammatica e ciclica è quella dell’autodistruzione affogata nel lusso dorato di un mondo finto, squallido e spento. La fine dell’antica Roma, la fine di New York e la fine di New Rome sono ripetizioni di una stessa storia. Quello che offre il protagonista di Megalopolis non è una soluzione, ma un sogno. Ed è la stessa cosa che chiede di immaginare Coppola ai suoi spettatori: c’è un’alternativa?  

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