Migrazioni: identità linguistica e integrazione è il titolo dell’ultimo seminario del corso interdisciplinare della Scuola superiore di studi avanzati Migrazioni. Corpi, frontiere, spazi, conclusosi proprio oggi 18 maggio. Nell’Aula di Archeologia di Lettere è intervenuta la prof.ssa Barbara Turchetta, docente di linguistica all’università di Bergamo che ha illustrato, in una lezione folta di partecipanti, cosa succede alle lingue durante le migrazioni e che destino hanno le lingue degli immigrati e degli emigrati. Le migrazioni, si sa bene ormai, sono un fenomeno globale e coinvolgono manodopera qualificata e non.
Il quesito di oggi è: cosa accade alle lingue in questi processi? Le lingue migrate hanno uno scarso riconoscimento politico, non potendosi incasellare nella distinzione legislativa di lingue ufficiali e non ufficiali. Acquisiscono, così, un valore esclusivamente culturale, intese come lingue di eredità e di minoranza. Ma la verità è un’altra: le lingue migrate, in Italia come in Europa, non hanno un presente, chissà un futuro. Le politiche notoriamente nazionalistiche dell’Italia, che tendono a rapportarsi agli immigrati in maniera assistenzialistica e non integrativa, non assicurano terreno fertile a una commistione linguistica o persino alla nascita di varietà ibride.
Le poche parole che sono arrivate nel nostro lessico – prosegue Turchetta – sono relative alla gastronomia, e al di fuori di questo campo non c’è più traccia. La storia dell’immigrazione italiana è variegata: partita dagli anni del fascismo come coloniale, si è stabilizzata negli anni ’80 come flusso di lavoratori stagionali o richiedenti asilo. Proprio a causa dell’imponente spinta ad ignorare la presenza di lingue migrate e all’atteggiamento di chiusura che si è andato formando nel nostro Paese, è attualmente imprecisabile il numero esatto di lingue migrate che si parlano in Italia.
Ma come stanno le cose dall’altro lato, ovvero dal punto di vista delle lingue emigranti? Oggi emigrano i pensionati – verso i paradisi fiscali – o i giovani professionisti, altamente istruiti, alla ricerca di un lavoro e una vita migliore. Turchetta chiarisce questo punto relativizzandolo alla scolarizzazione:
“chi migra con uno scarso livello di scolarizzazione tende a desiderare una nuova identità per le generazioni successive, perché lo vede come un riscatto sociale“. Questo significa che la lingua d’origine, immaginiamo l’italiano, non verrà più trasmessa verticalmente, o almeno non tanto quanto la lingua “nuova”. Al contrario chi è altamente scolarizzato tenderà a inserirsi in un flusso comunicativo meno controllato, magari tendente a servirsi con destrezza, anche nei messaggi scritti, sia della lingua appresa che lingua d’origine. Ma sicuramente non mescolerà mai i due codici nella comunicazione, dove propenderà senza esitazione per la lingua del Paese accogliente.
La domanda che potrebbe sorgere allora è: quale lingua d’origine si conserva? Il dialetto o l’italiano? Turchetta precisa come la dialettofonia insista soltanto nella prima generazione di migranti e per non più di 5 anni. Col passare degli anni queste forme di italiano sono dimenticate e sostituite con varietà di contatto. Le lingue emigranti mutano continuamente e in modi diversi, generalmente o creando nuovi modelli linguistici partendo dalle varietà dialettali originarie oppure per diffusione dell’italiano stesso quando non c’è solo il dialetto nel proprio repertorio linguistico.
E’ quello che si verifica nelle varietà di italiano parlate negli Stati Uniti, in cui varianti fonetiche, lessicali e morfologiche sono all’ordine del giorno. E non finisce qui. La prof.ssa insiste che le varietà di italiano, nate negli Stati Uniti come evoluzione degli immigrati di prima generazione, stanno acquistando indipendenza e, soggette sempre a mutamento, sono da considerarsi proprio come nuove lingue, dalla storia del tutto autonoma e personale.
Non c’è da stupirsi del resto. La lingua è lo specchio della società, e le migrazioni, il fenomeno sociale più importante di oggi, trasportano con sé una staffetta di novità che potrebbe cambiare il volto linguistico dei nostri Paesi. Resta solo da capire come vogliamo porci di fronte a questa richiesta: favorevoli o no?
“Restano i dati di fatto“, conclude Turchetta: “le varietà non restano costanti, ma sono soggette sempre a mutamento“.