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Scacco al re: Il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. All’UnitelmaSapienza Miguel Gotor per il ciclo La Notte della Repubblica

La Notte della Repubblica - Miguel Gotor,
Questa mattina UnitelmaSapienza ha ospitato il terzo incontro che fa parte di un ampio ciclo di seminari dedicato ai grandi eventi che hanno caratterizzato la storia della repubblica italiana. Prendendo in prestito il nome dalla celebre trasmissione di Sergio Zavoli, la Notte della Repubblica, quest’oggi, la lectio, introdotta dalla storica Michela Ponzani, è stata tenuta dallo storico Miguel Gotor, intitolata Il Caso Aldo Moro, una lettura e un’analisi approfondita attraverso le lettere della prigionia. Un’occasione unica per ripercorrere una pagina buia della nostra storia.

I saluti istituzionali del Magnifico Rettore Bruno Botta hanno inaugurato la giornata elogiando la presenza degli storici Michela Ponzani e Miguel Gotor, ponendo l’attenzione sulla memoria di una grande università come quella della Sapienza, protagonista indiretta di quella stagione storica, con i suoi movimenti e l’interesse degli studenti, che proprio in quelle tragiche ore, si ritrovarono a commentare un evento che avrebbe inciso per molto tempo nell’immaginario collettivo degli italiani. “Il rapimento di Aldo Moro fu un evento che sconvolse tutti, un filo conduttore che lo lega ancora ai giorni nostri, tutti capimmo in quei drammatici giorni che oltre un certo limite non si poteva andare oltre; – continua il Magnifico – noi, con le nostre istituzioni, dobbiamo essere un esempio”.

È stato poi il turno di Michela Ponzani: “Ci siamo chiesti quanto fosse ancora oggi giusto interrogarci sui nodi chiave della Prima Repubblica”. Perché il caso Moro?, ha chiosato ulteriormente la Ponzani, nelle sue parole uno “spartiacque traumatico” per il nostro paese. Come i grandi avvenimenti storici, il sequestro di Aldo Moro ha provocato in chi l’ha vissuto in prima persona il ricordo esatto di quello che stava facendo mentre ebbe modo di apprendere della notizia. Per tutti questi motivi, e per altri ancora, Michela Ponzani ha introdotto l’intervento del collega Gotor ponendo ai presenti un altro interrogativo: “Dov’è finito il manoscritto originale?.

Quesito che ha mosso il lavoro di Gotor, confluito nel volume Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano e, aprendo la strada al lungo intervento iniziato subito dopo.

“È giunto il tempo, dopo 46 anni, un tempo corretto, perché si profili la necessità dello sguardo di uno storico sul caso Moro”, ha esordito così Gotor, gettando luce sulla figura e sulla profondità d’analisi che solo la professione di uno storico può rivolgere ad un evento in cui ancora oggi esistono ombre irrisolte.

Perché è interessante studiare il rapimento Moro?

Gotor risponde con due motivi diversi: il primo, osservare una democrazia che reagisce ad un attentato di questa portata accende i riflettori sulla sua statura, rigore morale, permeabilità delle istituzioni; secondo, il sequestro e l’omicidio Moro – in cui Gotor sottolinea di tenere ben distinti i due momenti – sono uno “scacco al re” nei confronti della politica di Moro e della sua funzione di “orologiaio del sistema”, anche nella sua futura proiezione al Colle e, quindi, al potere che avrebbe continuato ad esercitare.

Ci tiene a precisare Gotor, quella del rapimento Moro è una rappresentazione del rapimento di un sovrano, un evento molto più raro rispetto alla sua eliminazione, da non dover equiparare – come molte volte è stato fatto – all’uccisione del presidente americano Kennedy a Dallas. “L’Italia è il paese delle congiure, è quella di Aldo Moro è stata una congiura, proprio nel giorno in cui sarebbe dovuto nascere il nuovo governo Andreotti con il sostegno del PCI, figlio di un lungo processo passato alla storia come il compromesso storico” – afferma Gotor e prosegue – “ancora, non possiamo credere che il sequestro sia stato commesso da sole 10 persone, soltanto nel sequestro Sossi furono 18 i brigatisti coinvolti”.

Molti sono gli interrogativi che non tornano e che Gotor descrive lucidamente nel suo intervento, a partire dalle tre macchine parcheggiate usate per il sequestro in via Licinio Calvo, una strada stretta e senza uscita che avrebbe richiesto sicuramente l’appoggio di altre persone, rimaste tutt’oggi senza nome e impunite. Come i due individui mai identificati sul luogo del sequestro in Via Fani, accertati da diverse testimonianze oculari, di cui le BR hanno sempre negato e che non hanno mai trovato conseguenze investigative. L’intenzione delle Brigate Rosse, continua Gotor: “era destabilizzare il paese, distruggendone l’immagine civile e morale, un’operazione di propaganda spietata diretta a distruggere la moralità di Moro, escludendo eredi all’orizzonte, annientando la corrente morotea, proseguendo anche nella scelta di uccidere Piersanti Mattarella il 6 gennaio del 1980, un giovane carismatico che in un certo senso ne aveva raccolto il testimone”.

Ma cosa ha spinto le BR a spingersi così oltre?

Gotor insiste sull’operazione Moro inserendola in un’ampia strategia di depistaggio e di raccolta di informazioni sensibili sulla struttura atlantica dell’Italia. Nelle sue parole: “L’interesse era coprire le ragioni che hanno portato al suo omicidio, utilizzare Moro come vittima, attraverso una cultura del martirologio, inquinando la fondatezza delle sue lettere”, prosegue, “da una parte c’era la linea della fermezza e chi diceva che quelle lettere non erano scritte di suo pugno, dall’altra, invece, chi sosteneva la linea della trattativa”. Qui, affiora con metodo il lavoro dello storico, il cui compito è la critica delle fonti, il suo studio calato nel giusto contesto; in termini pratici, come si è attivato questo ricatto spionistico-informatico?, si chiede a questo punto Gotor.

Il suo quesito trova risposta nelle lettere di Moro, nella scelta delle Brigate Rosse di quali pubblicare e quali no. Procedendo con ordine, dopo 11 giorni di prigionia, le BR si fanno vive con le prime tre lettere di Moro: la prima, quella d’affetto nei confronti della moglie Eleonora; le altre due, invece, rivolte a Nicola Rana e all’allora ministro degli Interni Francesco Cossiga. In queste, Moro auspicava ad una trattativa da custodire in segreto, le sue espressioni rivelano la sua condizione di “dominio pieno e incontrollato”, posto nelle condizioni di poter dire dei segreti perché in gioca c’era la “ragion di Stato”, non soltanto la sua vita. Le BR, tuttavia, pubblicano la lettera di Cossiga, nascondo al pubblico invece quella rivolta a Nicola Rana, decisione questa frutta di una strategia tesa a non nascondere nulla all’opinione pubblica, opporsi a quella “cultura dell’occultamento, del segreto, della Democrazia Cristiana” che sottolinea lo stesso Gotor. Ecco che il rapimento Moro diventa un terreno di scontro internazionale, dove gli interessi in gioco sono plurimi, riguardano le alleanze in blocco contrapposte, figlie dell’ordine post seconda guerra mondiale. A questo punto Gotor ricorda un aneddoto emblematico di quei giorni: “Quando Cossiga stava leggendo la lettera a lui rivolta nel suo studio personale, il suo messo entrò nello studio rivelandogli la scelta delle BR di pubblicare il testo integrale della lettera, in quel momento, Cossiga capì che Moro non sarebbe più tornato”.

Quali sono dunque le ragioni che hanno spinto le Brigate Rosse a cavalcare la via del ricatto?

Gotor fa riferimento prima di tutto alla dimensione internazionale dell’Italia, specialmente nell’organizzazione Gladio, fino a quel momento tenuta nascosta. Gladio era un’organizzazione paramilitare di matrice americana, frutto di una intesa tra la CIA e i Servizi Segreti Italiani, organizzata per contrastare un’eventuale ingerenza e invasione dei paesi del Patto di Varsavia in Europa, le cui attività di sabotaggio, guerriglia e guerra psicologica avevano la funzione di mantenere i paesi europei dentro un’ottica di stabilizzazione centrista e moderata, evitando che il campo progressista prendesse piede nella società civile e politica.

Insiste Gotor: “Nel momento in cui, nel memoriale uscito il 10 aprile del 1978 le BR pubblicano la lettera di Moro rivolta a Paolo Emilio Taviani, le persone che sapevano di Gladio subito capirono che il riferimento era all’operazione Stay Behind di cui Taviani era il garante per gli Stati Uniti d’America. Dunque, si era aperta una falla, una fughe di notizie che non poteva andare oltre”. Continua Gotor: “la seconda ragione era da imputare ai rapporti con il Medio Oriente, al Lodo Moro, di cui l’onorevole era un protagonista di primo piano; l’accordo prevedeva un patto di non belligeranza tra l’Italia e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, in cui il governo italiano si impegnava a concedere dei salava-condotti per i guerriglieri palestinesi catturati in Italia e, in più, chiudendo un occhio sul traffico d’armi che viaggiava dal Nord Europa diretto in Oriente, con in cambio i palestinesi che garantivano di non colpirla con attentati”.

L’operazione Moro, nella sua complessità, è stato il punto più alto raggiunto nella strategia della tensione. Gli americani intuirono che quello che era stato fatto in Grecia con i colonnelli e in Cile con Pinochet era impensabile da realizzare in Italia, la suggestione golpista avvenuta in Italia tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 era una strategia da non poter essere presa in considerazione, con il rischio concreto di una carneficina senza precedenti. Tuttavia, rimaneva la possibilità di smorzare gli eventi, di deviare la traiettoria della storia a colpi di bombe e di attentati, che fossero di matrice neofascista prima e di estrema sinistra poi, poco importava, l’obiettivo era quello di destabilizzare stabilizzando. E ci sono riusciti.

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