Si è svolto ieri, presso la Sala Lauree dell’Edificio di Scienze Politiche, il “Convegno italo-spagnolo sulle politiche del lavoro in ambito locale” – una giornata di studio dedicata alla presentazione dei risultati del progetto di ricerca avviato su questo tema dalla Sapienza, in collaborazione con gli atenei italiani di Milano Bicocca, Napoli Parthenope, Padova, Perugia, Bari e quelli spagnoli di Malaga e Granada.
Molti gli spunti di riflessione emersi durante l’analisi: è stato ricordato il ruolo del lavoro nella costruzione dell’identità sociale – strumento di inclusione in una comunità, oltre che fonte di benessere. E’ stato descritto l’attuale assetto normativo delle politiche del lavoro ripercorrendone gli sviluppi in ambito nazionale e comunitario. E’ stato delineato il profilo del nuovo lavoratore, “transizionale” e disposto ad adattarsi. Non ultimo, il convegno è stato uno scambio di approcci e conoscenze, un momento di confronto, di dialogo accademico tra i due Paesi protagonisti della ricerca: Italia e Spagna.
L’espressione «sviluppo locale» è un concetto piuttosto ampio, che comprende una realtà molto sfaccettata. Non è facile, infatti, definire con precisione che cosa si intende per ambito «locale». Con tale qualificazione si può, naturalmente, intendere il contesto municipale; tuttavia, in tale concetto può rientrare anche un’area ben più vasta che comprenda zone con caratteristiche simili. Di conseguenza – come è stato illustrato attraverso l’analisi dei casi regionali – non è possibile individuare un unico modello o approccio di policy, o ancora un’unica best practice di sviluppo locale.
L’espressione «sviluppo locale» può indicare azioni compiute in campo economico, ed in particolare nello sviluppo imprenditoriale (nascita di nuove imprese e modernizzazione di quelle esistenti), programmi tesi a migliorare l’efficienza dei mercati del lavoro (facilitazione dell’incontro tra domanda ed offerta di manodopera), ma anche programmi realizzati nell’ambito dell’inclusione sociale ed indirizzati dunque alle categorie cosiddette «deboli» (immigrati, over 50, donne, giovani).
In ambito normativo, il concetto di «sviluppo locale» indica un approccio decentrato ed integrato alle politiche economiche, occupazionali e sociali. Decentrato, poiché il livello che rileva è quello sub-nazionale e, nella maggior parte dei casi, sub-regionale. Tuttavia, considerare lo sviluppo locale semplicemente come l’implementazione su scala ridotta dei programmi di politica nazionale sarebbe fuorviante: un elemento che appare essere centrale nello «sviluppo locale» è infatti la dimensione della partnership – come illustrato dall’analisi dei casi nazionali. Allo stesso modo, è impossibile pensare politiche di sviluppo efficaci prive di una guida istituzionale.
La prima azione significativa in ambito comunitario risale agli anni Ottanta, ed in particolare al 1986, con l’inaugurazione della Local Employment Development Association (LEDA), network di aree pilota impegnate a sviluppare nuovi approcci e tecniche di sviluppo locale, a disseminare le best practices e a rafforzare la cooperazione.
Un ulteriore passo avanti nell’utilizzo di un approccio locale si è avuto qualche anno dopo, nel 1997, con l’avvio dei Patti territoriali per l’occupazione (per sviluppare una strategia maggiormente integrata, comprendente la politica sociale, le politiche del lavoro e la promozione dello sviluppo locale) e la nascita della Strategia Europea per l’Occupazione (SEO). La SEO, lanciata in occasione del Consiglio Europeo di Lussemburgo, ha progressivamente integrato nelle sue linee guida annuali il concetto di «sviluppo locale». Oggi la flessibilità del mercato pone nuove sfide all’assetto normativo in materia di politiche del lavoro, politiche efficaci che trovino un punto di contatto con le mutate condizioni socio-culturali.
Il principio di partnership spinge gli attori a creare dei veri e propri policy networks, che si caratterizzano per le relazioni di fiducia e cooperazione tra attori provenienti da ambiti diversi, ma impegnati a perseguire gli stessi obiettivi di sviluppo della realtà territoriale in cui operano. Tuttavia, si caratterizzano anche per la debolezza del legame, per la precarietà dell’occupazione.
Il profilo del nuovo lavoratore è “transizionale“, flessibile, non legato al posto fisso, a quell’idea di stabilità fordista messa in discussione dalla globalizzazione economica e culturale. Un modello di lavoratore disposto ad adattarsi, attivo nell’accrescere la propria occupabilità – anche a discapito delle proprie aspirazioni. Ne abbiamo parlato con Adriana Topo, prof.ssa di Diritto del Lavoro all’Università di Padova.
Per realizzare l’integrazione di questo modello non sono sufficienti episodici momenti o espedienti di coordinamento. Oltre al superamento dei limiti intrinsechi ad alcune politiche, è necessario pensare a soluzioni strutturali che consentano un collegamento istituzionale, un meccanismo di governance interattiva capace di generare proceduralmente sinergie, connessioni, coordinamento. A questo scopo devono mobilitarsi istituzioni e parti sociali, attraverso un processo di apprendimento istituzionale basato sulla comunicazione delle migliori esperienze.
Ismaele Pugliese