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The Trainer, una delirante televendita di 95 minuti piena di star improbabili e cappelli pesanti

The Trainer di Tony Kaye, il cast presente alla conferenza stampa

Vito Schnabel, mercante d’arte figlio del regista e artista americano Julian Schnabel, Tony Kaye, regista britannico di American History X e Detachment, Steven Van Zandt, tra i protagonisti de I Soprano e chitarrista di Bruce Springsteen, Bella Thorne, ex star di Disney Channel famosa per aver guadagnato 1milione di dollari nelle prime 24 ore di iscrizione ad Onlyfans, Julia Fox, attrice italo-americana parte di quello che Dazed definisce il “Mother Cinematic Universe” del fenomeno Brat di Charli XCX (con tanto di apparizione nel video di “360” in cui viene citata nel testo con l’iconico “I’m so Julia”). E Lenny Krevitz, Paris Hilton, John McEnroe, Finneas e troppi altri nomi improbabili.

The Trainer è una delirante televendita di 95 minuti in cui il linguaggio della televisione si sostituisce a quello della realtà, rendendo incomprensibile la differenza dell’una dall’altra. Jack Flex (Vito Schnabel) è un esperto di fitness sfaccendato che vive con la madre a Los Angeles e ha un’idea geniale: Heavy Hat. Sì, un cappello pesante. Semplicemente un cappello pesante. Imitando uno stile da elmo greco romano con un tocco retrofuturistico che lo fanno assomigliare ad una patacca da vendere ai turisti, Heavy Hat dovrebbe attivare costantemente gli addominali, aiutando a migliorare il proprio fisico costantemente, anche mentre non si fa nulla. Ma c’è di più, oltre al benessere fisico, Heavy Hat aiuta a risolvere anche problemi di salute mentale, liberando dalle ansie della vita quotidiana stimolando le “molecole della speranza” (hope molecules).

Heavy Hat è un gadget, quello che per Jean Baudrillard è l’emblema della società post-industriale in cui la funzione dell’oggetto scompare a vantaggio della funzione di segno, una “inutilità funzionale” in cui qualsiasi cosa, potenzialmente, può diventare gadget, oggetto ludico senza fine. A livello narrativo è anche un McGuffin, come direbbe Alfred Hitchcock, quell’oggetto che per il personaggio principale ha un significato fondamentale, in cui vengono riposte tutte le speranze dell’abbagliante sogno americano, e in cui tutti gli altri personaggi vedono poco più di un pezzo di ottone e latta.

Esposti nella vetrina eterna del canale televisivo di televendite RVCA, in cui lo sguardo si affaccia costantemente su una marea di oggetti, lo sguardo di The Trainer avvolge questa allucinata parabola sull’illusione del sogno americano (un sogno americano sotto steroidi e iperaccelerato) attraverso un montaggio epilettico, stilizzato e cartoonesco. Acclamazioni di un pubblico da stadio inesistente, oggetti illuminati da glitter digitali, comparse di star l’una dietro l’altra, The Trainer è un film continuamente straniante e allucinante. Ma è anche una riflessione sull’interiorizzazione nella nostra vita quotidiana non solo dei contenuti della televisione e dei social media, ma dei suoi stessi linguaggi.

Jack Flex racconta la sua vita come in un talk show con Gayle King, propone i suoi prodotti come in una televendita, comunica con i suoi followers come in una diretta twitch. È a livello di linguaggio che infatti avviene questa totale commistione tra pubblico e privato, tra ribalta e retroscena (direbbe Erving Goffman), in cui l’invasione dei media non è solo a livello di contenuto ma anche a livello di forma. I media non ci dicono soltanto cosa pensare e a cosa pensare, ma anche come pensare:

McLuhan era convinto che i media elettronici stessero erodendo la logica, la linearità e la sequenzialità della concezione del mondo che dominava l’Occidente moderno. Credeva che l’ottica causale fosse a sua volta un prodotto della tecnologia, specialmente dei caratteri alfanumerici, della pressa tipografica e delle tecniche rinascimentali del disegno in prospettiva. Tuttavia, la diffusione di nuove tecnologie mediatiche come il fonografo, la radio e la televisione stava disintegrando il vecchio paradigma composto da lettura, scrittura e logica. Con una rinnovata propensione per l’immagine, l’oralità e la partecipazione simultanea, l’ambiente elettronico stava rievocando la psiche collettiva delle culture orali precedenti.

“La civiltà è interamente il prodotto dell’alfabetismo fonetico” scriveva, “e mentre essa si dissolve nella rivoluzione elettronica riscopriamo una consapevolezza tribale, integrale, che si manifesta in uno spostamento completo della nostra vita dei sensi”. McLuhan descrisse l’emergente società elettronica come “un mondo risonante, simile all’antica camera dell’eco tribale, in cui la magia torna a vivere”.

Techgnosis, Erik Davies

Quando McLuhan parla di “villaggio globale” non intende solo le conseguenze globalizzanti della disgregazione spazio-temporale (di embedding e disembedding come direbbe Anthony Giddens), ma anche quelle di questa ipervelocità a livello di linguaggio e di forma del pensiero. La società dell’informazione è una società dell’immagine e dell’apparenza, della “ritribalizzazione elettronica dell’Occidente”. E l’impostazione televisiva di The Trainer scavalca in questo qualsiasi tipo di logica causa-effetto, in un dominio dell’immagine e dell’apparenza al di sopra di qualsiasi tipo di contenuto.

Jack, Elektra, Deb e gli altri (folli) personaggi più che una famiglia ricordano una tribù, una tribù forgiata dal linguaggio della televisione e ossessionata dal successo. Gli eroi del consumismo sono stanchi, per Jean Baudrillard, in quanto la stanchezza è un’attività competitiva generalizzata. Nel corso degli avvenimenti del film Jack Flex non dorme mai, è sempre sveglio, sempre attivo e in movimento, in una costante performance documentata dettagliatamente ad un pubblico invisibile (ma rumoroso). Una televendita continua in cui l’immagine è tutto e le parole scompaiono in un flusso di coscienza e dialoghi spesso nonsense, deliranti e sopra le righe.