Questa non sarà una storia semplice, come tutte quelle care che rinunciamo a dirci. Sono l’oggetto sulla cui superficie è impressa una memoria disinteressata dallo scorrere del tempo, sono risvegli al cacao amaro e tutte le infinite parole che rimarranno soffocate in questo testo. E’ una storia di donne che abbiamo amato e, madri dei nostri tumulti, ci hanno fatto crescere. Sono state le prime dalle quali siamo corse quando, indecise del nostro riflesso, cercavamo nuove storie in cui eclissarci. Donne che si sono raccontate, e raccontandosi, ci hanno confuso e spezzato nel profondo. Eppure sono donne come noi. Donne che hanno vissuto per farci nascere qualche decade di volte. In maniera simultanea ci hanno preso a schiaffi e accarezzato, obbligato a porci di fronte allo specchio di tutte le domande che piano piano si facevano strada nelle nostre menti ancora così indefinite. Ed è evidente per loro, ma ora anche per noi, che sentirsi un po’ macchiate di antracite è solo il primo passo per capire come emergere dal nostro acquario apparentemente perfetto. E poi, d’un tratto si può rimanere sorpresi nel vederle così quotidiane, così poco idealizzate. Prima di ogni cosa infatti ci hanno compreso quando ci sentivamo lontane, anche da noi stesse. Ci hanno mostrato che i nostri sogni su misura vanno difesi dalle catene seriali dei nostri stessi retaggi. E poi ci hanno insegnato la fede, e il valore di tutte le attese e come pioggia estiva è stato il correre al loro fianco verso la nostra nuova stagione.
Erano nel vento odor grano su quell’autobus al ritorno da scuola quando sognavamo un mondo più giusto. Questo è tuttavia il mondo contraddittorio che si inclina sulle lenti appannate dallo smog alla fermata di un tram o nella pausa caffè dopo la lezione delle undici. Tante volte proviamo a spiegarla la Bellezza, a descriverla, a capirla. Certe volte ci è così vicina che riusciamo quasi ad afferrarla. Ecco che, d’improvviso ci sfugge, e come in una festa di volti, questa Anima che vive nel nostro intorno è già stata inghiottita dall’oblìo di maschere non numerate. Forse è un po’ questo che ci ha voluto comunicare con una nuova matrice, così ermetica, così iconica, Mirella Bentivoglio nel suo “Uovo Universale”. Forse voleva semplicemente dirci che siamo materia circolare, gli uomini. Nelle nostre zone d’ombra siamo un paradosso di storie semplici. E’ così potente e talmente reale questo bisogno di cercare qualcosa che ci porti oltre noi stessi che ci dimentichiamo ciò che ci rende tali. Troppe sono le volte che abbiamo letto queste parole, ascoltato queste voci nella coscienza comune. Recidivi continuiamo a ignorarla, o addirittura calpestarla, questa natura così sorella. Ma loro sono state brave anche in questo, nel farci fare i conti con la nostra relativa diversità. E quando ci siamo avventurate verso troppi silenzi, ci siamo riscoperte e commosse. Le loro performances uniche, energiche, talvolta agghiaccianti, diventano il placato pianto per il ricordo affettivo di un amore. Un amore importante quello tra Marina Abramovic e Frank Uwe Laysiepen, al secolo Ulay.
Abbandonarsi sulla Grande Muraglia Cinese durante la loro “The Wall Walk in China” e ritrovarsi in un museo, il MOMA, nella performance “The artist is present” (2010) è il simbolo di quanto nei nostri luoghi interiori le persone che ci hanno spinto a conoscerci vivranno per sempre. Lei, Marina Abramovic, un’anima impetuosa, irriverente, inquieta, libera ci pone di fronte alla nostra nuda essenza, tramite performances primitive, è la donna che diventa arte, linguaggio, simbolo, visione. In tutta la sua cruda e selvaggia bellezza, in tutta la sua spontanea dimensione: Marina Abramovic, tra le incomprese della storia. Nel nostro piccolo universo mainstream, lei muta sotto i nostri stessi occhi, diventa celebrità ironizzando sulla denigrazione culturale a cui spesso è sottoposta. E nel suo essere celebrità, icona pop, diventa eterea. Spesso sono donne malinconiche, com’è malinconica la nostra innata natura, scatenata da una memoria evolutiva che ci fa già nascere con un senso famelico e propulsivo. Una malinconia a suon di sirtaki, dolce, che ti avvolge alla otto di sera in un Autogrill durante un viaggio.
E asmatico fu il viaggio per Maria Lai, tessitrice su carta e su tela. In cerca della sua “isola selvaggia”, una sorella difficile come la sua storia, che non poteva rimanere verso incompiuto. E quindi viaggiò ancora, lei si narra in modo urgente ma casuale in un intreccio di memorie, scoperte e favole. Si narra in viaggi in cui si è persa, tradita, trovata. E nel trovarsi è tornata alle sue radici, che trovano forma in fili, carta, pane, legno, stoffa. Paziente come la ninnananna di un’anziana era il gesto della tessitura. Dal suo sapiente lavoro possiamo leggere una fiduciosa preghiera, una coerente armonia con l’universo. Il Centro Sperimentale di Cinematografia con attenta regìa rende iridescente fino a settembre per noi la figura di Titina Maselli, una donna capace di figurare l’ironia brillante e sottile dei suoi scritti in brucianti giochi di colore che scottano e regolano spazialmente la tela. Carla Accardi continuerà a portarci con il suo astrattismo in coloratissime danze tribali emozionali verso quei paesaggi che conosciamo senza nemmeno averli mai visti. Forse qualcuno è stato molto bravo nel raccontarceli, ma non importa, per quel che sappiamo prima o poi li raggiungeremo. Questa volta è la Galleria Nazionale di Arte Moderna a raccontarle, omaggiarle, ringraziarle. Finalmente una mostra che parla delle donne alle donne, siamo oramai lontani dalle “mostre-ghetto” e a distanza di anni in cambio di tutto ciò che ci hanno donato per una volta siamo nella loro storia complessa, tormentata, vissuta. Una storia da leggere fino alla fine dell’estate, un simbolo della loro esperienza, a tratti eccentrica, a tratti ponderata. Ma pur sempre una storia, inaspettatamente, molto semplice.