Ed è quasi come essere felice: è questo il titolo del brano che apre il nuovo album di Francesco Motta, e forse non a caso. Un disco che arriva a distanza di due anni dal debutto con la Fine dei Vent’anni grazie al quale si è aggiudicato la Targa Tenco 2016 nella categoria Opera prima e il favore di un ampio pubblico, che ci ha visto proiettate le ansie di una generazione, con la paura di invecchiare, di dover trovare un posto nel mondo, di dover barattare le proprie turbe con le responsabilità.
Vivere o morire è il sequel di quel racconto, narrato con lucida autenticità. Un album più maturo, anche dal punto di vista sonoro. Meno rumoroso, più rifinito, essenziale, “un lavoro per sottrazione, in cui non c’è nulla in più di quel che doveva esserci” come ha spiegato lo stesso Motta alla presentazione del disco a Roma. Una scelta stilistica che si ritrova anche nei testi, lineari ma più intimi di sempre. E’ Francesco all’ennesima potenza, che si svela con quel modo autentico che è proprio di pochissimi. Dall’inno al rischio, al viversela per quello che è di Vivere o Morire, passando per l’amore presente e perduto, tra brani che fanno male come Chissà dove sarai e la tenera incertezza de La prima volta, Motta dimostra di sapersi muovere trovando la strada originale, non ancora percorsa, anche quando arriva su terreni affollati. Sino all’approdo sorprendente del pezzo conclusivo, Mi parli di te, in cui quella parola, babbo, detta così, in dialetto toscano, regala un’emozione che fa del bene.
Un gran bel lavoro, in cui la critica ha evidenziato una maggiore propensione al sentimentalismo, parlando di un Motta innamorato: sicuramente, ma di se stesso più che di una donna. La consapevolezza di un uomo sereno che ha imparato a convivere anche con le sue ansie e contraddizioni, con la necessità di mettere radici – a Roma, che ha definito la sua città – col bisogno di fare pace coi propri demoni, rimanendo fedele a se stesso.
Ludovica Marafini